Stefano e Marsel

Tre uomini, fra i quali Marsel, un ragazzo di 27 o 28 anni, si introducono in una bella casa di campagna per rubare oggetti di valore. Un altro uomo, Stefano, di 61 anni, il proprietario dell’abitazione, se ne sta tranquillo e solo nella sua dimora, forse dorme, forse guarda la televisione; si accorge di una presenza estranea, capisce che sta accadendo qualcosa di ingiusto e inaspettato, la sua roba e (forse, teme) la sua persona sono in pericolo. E’ proprio per far fronte a situazioni di questo tipo che ha deciso, tempo fa, di comprare una pistola e di tenerla legalmente in casa: se ne ricorda e la raggiunge. La afferra e spara.

Marsel cade, e inizia a morire. Finirà qualche ora dopo, all’ospedale. Non so, nessuno sa, cosa è passato nella mente di Marsel negli istanti dello sparo, o in quelle ore di agonia. Forse non ha fatto nemmeno in tempo ad accorgersi che la sua vita finiva quella notte di Natale. Io non so nemmeno cosa abbia pensato Stefano prima di sparare, dopo aver sparato, quando ha preso coscienza di avere messo fine alla vita di una persona, di un uomo. La notte di Natale del 2011.

Di certo Stefano sarà costretto a fare i conti con il fatto che quel corpo steso in terra davanti casa sua è stato, fino allo sparo, il corpo di un uomo, di un individuo: Marsel, 27 o 28 anni, albanese e… e tutto il resto. Non solo il corpo di un ladro, di un albanese, magari di un bastardo albanese di merda. Questo è un lusso che certo lui non potrà permettersi, e per questo a Stefano va la mia pietà. Questo lusso, invece, se lo sono indebitamente permesso i tanti che hanno commentato i fatti nei bar, su facebook, sui siti dei quotidiani locali, forse anche nelle case (fra panettoni, tombole e brindisi), sui sagrati delle chiese o nelle sedi dei partiti: “uno in meno”, “Stefano è un eroe”, “gli dovremmo fare un monumento”, “giustizia è fatta”, e simili. Parole che vanno lasciate sole, nella loro tremenda e vuota solitudine di fronte alla tragica semplicità dei fatti, alla definitiva verità della morte di un uomo.

I pensieri, piuttosto, dovrebbero essere altri. Ad esempio: perché stiamo diventando così soli e violenti? Un modello di civiltà sembra stia agonizzando da tempo, e con Marsel l’altra sera ne è morto un altro pezzo. Senza rete, senza fari, senza argini, gli uomini si trovano sempre più uno di fronte all’altro; soli, appunto. Stefano e Marsel, e in mezzo, fra loro, la roba. Il fallimento di una civiltà trasforma le relazioni sociali in un duello all’ultimo sangue: il sangue sparso dell’uomo che muore, il sangue avvelenato di chi dovrà convivere con l’idea di aver messo fine ad una vita. L’unico vincitore sarà, forse, proprio la roba, che non perde sangue mai.

La campagna che ho conosciuto io, quella nella quale sono cresciuto, è apparentemente la stessa dei fatti della notte di Natale: colline, campi, case sparse, di qua i monti, di là il mare. Eppure, venti o trent’anni fa, era un’altra cosa. Era un posto dove si lavorava duro, si viveva in semplicità (i pomodori, il porco, le sere d’estate sulle scale a prendere il fresco e a guardare le stelle), con la bella stagione si teneva la porta aperta anche di notte, e la chiave rimaneva su anche se stavi nei campi o giocavi dal figlio del vicino. Dei ladri si aveva una nozione piuttosto astratta, gli zingari ogni tanto passavano ma non avrebbero trovato granché da rubare.

Oggi quello che vedo sono ville bellissime: i muri sono quelli delle vecchie case coloniche, ma le finiture sono di lusso, le pentole sulle pareti della cucina ci stanno per bellezza, le rimesse sono state condonate e trasformate in dépendances, e le stelle le guarda solo la parabola del satellite. Durante le mie passeggiate guardo e invidio un po’ queste splendide dimore che da contadine sono diventate signorili, spesso circondate da mura alte, difese da sistemi di allarme e telecamere. I proprietari, forse figli e nipoti dei contadini che in quelle case ci stavano a mezzadria, probabilmente hanno lavorato anni col sogno di costruire questi Piccoli Paradisi Privati, questi Segni Tangibili del Riscatto. E ce l’hanno fatta ma, distratti dall’ansia, dal lavoro, dallo sforzo, forse non si sono accorti del deserto che si stava facendo intorno, dei tanti piccoli Inferni da cui erano circondati e che (senza volerlo, per carità, senza volerlo) avevano anche contribuito a creare. Quando, finalmente, si sono istallati nel loro Eden personale, hanno scoperto di avere bisogno di una Smith and Wesson per proteggerlo: loro pur così timidi, pur così pacifici, pur così noiosamente tranquilli.

Ma un Paradiso che va difeso con la pistola continua ad essere un Paradiso?

(Della vicenda particolare non so nulla di più di quello che ho potuto leggere nelle cronache locali, e non conosco nemmeno di vista i protagonisti o le loro famiglie. Spero sia chiaro che non voglio dare giudizi sui singoli personaggi coinvolti. Questo tanto per chiarezza)

Aggiornamento: Stefano Terrucidoro, il protagonista della vicenda raccontata, ha poi pronunciato parole di condanna verso tutti quelli che l’hanno esaltato come un eroe della vendetta. Mi piace segnalare anche l’opinione del Prof. Roberto Mancini. Qui, invece, le discussioni che questa nota ha suscitato su facebook.

8 pensieri su “Stefano e Marsel

  1. La questione è complessa e richiederebbe riflessioni articolate e ampie, anche perché sono molte le implicazioni. E il fatto che si sia un morto rende tutto ancora più scivoloso.
    Mi limito a un paio di considerazioni sparse e disorganiche.
    La campagna di 30 anni fa era diversa, siamo d’accordo, ma penso che rievocare quel modo di vivere sia ormai poco utile, dal momento che nel frattempo tante cose sono cambiate: si è diffuso un certo benessere (e non solo nelle case coloniche ristrutturate), e i racconti di furti non sono più così vaghi e lontani (una paio di mesi fa un ladro si è introdotto in una casa nel mio quartiere, lasciando tutto a soqquadro); la tv ogni giorno trasmette notizie di efferatezze varie, e per molto tempo anche la politica (non solo a destra) ha cavalcato i temi della (in)sicurezza e della paura, mescolandoli a quello dell’immigrazione, considerata esclusivamente nella sua accezione negativa e criminale. Insomma, una miscela pericolosa.
    Poi non parlerei solo di roba da difendere: penso si tratti anche di difendere (ma già il verbo orienta il discorso in una certa direzione) uno spazio, un’intimità: fatico molto ad immaginare quale sensazione si provi sentendo che qualcuno sta cercando di entrarti in casa, o svegliandosi di soprassalto vedendo un individuo che rovista nei tuoi cassetti, o tornando a casa trovando tutto sottosopra.
    Non sto giustificando nulla, sia chiaro: sto solo cercando di capire come si possa arrivare alla decisione di mettersi in casa un’arma; perché è quello il passo fondamentale: poi, nell’agitazione del momento, può succedere di tutto, e si possono compiere gesti sui quali non si era mai veramente riflettuto e dai quali si resta segnati.

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  2. Grazie per aver rotto il ghiaccio con il primo commento: l’occasione va onorata, e per onorarla dissento :-). Non credo che sia così inutile rievocare la diversità di un tempo, della campagna dove siamo cresciuti (entrambi, credo). Non per nostalgia, sia chiaro (la nostalgia magari c’è pure, ma è un fatto personale), ma perché serve a ragionare su cosa è cambiato, e su come la società non ha saputo gestire il cambiamento. Tutti i fenomeni che evochi sono allo stesso tempo cause e conseguenze di questa mancata gestione (e parlo di gestione culturale ancor prima che economica). Io volevo solo invitare a ragionare su questo mutamento, non richiamare un modello che non c’è più e non può più esserci.
    Quanto alla roba e all’intimità, è vero: la roba può essere di più o di meno, l’intimità vale per tutti. Ma a volte credo che anche il nostro modo di intendere l’intimità sia cambiato, e sia molto legato alla quantità e qualità di roba che abbiamo. Se vogliamo, alla complessità e ricchezza delle tante “protesi” di cui ci circondiamo.
    D’accordissimo sul fatto che il discrimine è mettersi in casa un’arma.

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  3. Cultura, intelligenza, etica nella tua riflessione. Cultura per tenere insieme gli aspetti vari che compongono le vicende e ragionare della loro complessità senza le scorciatoie semplificatrici che danno tanto sollievo alla pancia, ma devastano tutto il resto. Intelligenza per distinguere e provare a dare una gerarchia alle cose, che sembrano averla perduta; perché le cose non sono tutte uguali e non è innocuo leggerle da un verso piuttosto che dall’altro. Etica per non stancarsi di immaginare un mondo in cui sia possibile stare tutti e starci meglio. Perchè il lavoro non fatto oggi in questa direzione, dovrà essere fatto con più fatica domani. Ti ho letto volentieri

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  4. Che la campagna (mitizzazioni e nostalgie a parte) possa essere presa come cartina di tornasole di un progresso che è stato più economico che culturale, mi sta bene; e mi sta bene quando dici che questo progresso asimmetrico abbia portato troppo spesso a privilegiare l’avere (e l’apparire) sull’essere, con la conseguenza che l’intimità si sia troppo popolata di oggetti e troppo spopolata di valori. Concordo su tutto, anche sull’idea che sotto ci sia qualcosa che non va (scusa se semplifico al massimo).
    Il problema è che ho l’impressione che in questi approcci ci sia un vago sottinteso secondo il quale il derubato ha la sua bella fetta di colpe, e che in fondo ben gli sta, perché così impara ad ammassare roba (continuo a semplificare al massimo); ed un’impressione che non mi piace molto.
    Poi ripeto quanto ho detto sopra: 1. il fatto che sia morto un ragazzo rende tutti i discorsi più scivolosi, 2. non sto affatto giustificando la difesa a mano armata del proprio Piccolo Paradiso Privato.

    [liberissimo di dissentire; oltretutto siamo in casa tua ;-)]

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  5. @il.giallo: mettiamola così: se guardiamo alla cosa dal punto di vista del singolo individuo, anche a me non piace molto che lo Stefano di questa storia diventi uno che ben gli sta così impara – se però vediamo l’episodio come il precipitato (o: un precipitato possibile) di fenomeni più ampi lunghi e profondi, allora ci liberiamo dal rischio di una colpevolizzazione un po’ manichea della ricchezza, e anzi lo stesso Stefano diventa in qualche modo vittima di un processo che forse nemmeno ha scelto del tutto lui – io, per capirci, tendo a vedere con una certa pietas entrambi i protagonisti del fatto, e ancor di più da quando ho letto le dichiarazioni dell’uccisore alla stampa. Sul dissentire: mi stai dicendo che posso dissentire solo qui e a casa tua no? ;-).
    @Sandro: grazie, Sandro, delle tue riflessioni e del tuo apprezzamento. Non è la prima volta che, pur conoscendoci pochissimo, capita di scambiare idee e di farsi forza. Te ne sono davvero grato.

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