Qualche giorno fa pubblicavo un post che si riduceva, in pratica, a due link: il primo ad un articolo meditabondo e sconsolato di Marco Lodoli sulla impermeabilità dei giovani alla cultura umanistica (o sulla incapacità degli adulti di trasmetterla, che è la stessa cosa), l’altro ad una risposta, programmaticamente polemica verso Lodoli, scritta sul suo blog da Mariangela Vaglio, che orgogliosamente rivendicava la vitalità della cultura umanistica sulla base della sua concreta esperienza di insegnante di scuola media. Li avevo buttati lì, come un appunto, perché mi sembravano sintomatici di due modi molto diversi di riflettere sul ruolo dell’insegnante, e forse anche di due modi molto diversi di fare questo mestiere.
C’è un modo spiccio di leggere questi due articoli, secondo il quale quello di Lodoli sarebbe lo sfogo di un professore di 56 anni che non ha più voglia di fare la giornaliera fatica di mediare fra la sua cultura, quella che lo ha nutrito, entusiasmato e reso uomo [lui, per di più, non è un insegnante qualsiasi, ma un intellettuale e scrittore famoso, e questo sicuramente peggiora le cose], e la “cultura” (lui non la chiamerebbe così) degli adolescenti che si trova davanti e che gli sembrano alieni [lui, per di più, se non sbaglio, insegna in un professionale della periferia romana, e questo probabilmente peggiora le cose]. La risposta di Vaglio porta invece la voce di una prof ancora giovane e piena di entusiasmo, che ha fatto la giornalista, tiene dei briosi blog di scuola e società ed è appassionata di nuove tecnologie, e quindi ha buon gioco a dire: “Tu, Lodoli, e quelli come te, siete invisibili per i vostri studenti solo perché non sapete coinvolgerli, non sapete, chiusi come siete nel vostro mondo, capire il loro linguaggio, né far capire il vostro; lasciate spazio a noi, che sappiamo cosa fare! Guarda per esempio, Lodoli, cosa riesco a fare io!” (e forse fra le righe Vaglio vuole anche dire: “invece purtroppo la scuola è piena di gente della vostra generazione: noi quarantenni siamo spesso relegati ai margini, e per i trentenni non se ne parla nemmeno di entrare in un’aula; e come fa una scuola così vecchia a parlare agli adolescenti di oggi?”).
Questo è il modo spiccio, dicevo: ci sarà qualcosa di vero, ma non dice nulla di particolarmente interessante. Altra cosa è cercare di capire da dove parta il ragionamento di Lodoli, e dove arrivi.
A parer mio Lodoli, qui come in tanti altri articoli simili che negli anni ha scritto, fa emergere una sorta di contraddizione, di crisi – umana prima ancora che intellettuale. Lo si capisce bene partendo dalla fine dell’articolo:
Dobbiamo invece assolutamente capire dove [i nostri ragazzi] stanno andando, perché ci salutano senza nemmeno voltarsi, perché non si fidano più della nostra cultura. Oggi loro sentono che la vita è altrove e la memoria non basta a reggere l’urto con le onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui: serve energia, e quella non la trovi più nei cataloghi e nei musei.
E’ la constatazione, sacrosanta, della necessità di provare a capire “i nostri ragazzi” (espressione peraltro un po’ paternalistica), e del fatto che è in atto una rottura generazionale. Anche questa non è una novità, l’hanno già descritta in molti, con toni più o meno apocalittici, più o meno integrati; a me per esempio piace come ha cercato di descriverla e capirla Alessandro Baricco nel suo I barbari. Saggio sulla mutazione, lettura che consiglio a tutti. Lodoli però, al di là delle buone intenzioni del finale, è in realtà tremendamente nostalgico di quella cultura che i “barbari” rifiutano: quello è il suo mondo, ha probabilmente deciso di fare lo scrittore e il professore per provare a trasmettere quell’amato mondo a quanta più gente possibile (me lo vedo che gli si accende una luce interiore e dice “questa luce voglio accenderla in qualcun altro”: è capitato anche a me); quindi ci ha provato con passione, buona fede, e sicura competenza. Però niente, quella luce nei “suoi ragazzi” non si accende più: colpa dei ragazzi? colpa sua? colpa della “cultura umanistica” o di questo “reo tempo”?. No, di nessuno: è solo che non è così che funziona: la passione e la competenza non danno garanzie, la luce si accende nei modi più imprevedibili e imprevisti, e bisogna mettere in conto che lo scacco è molto più frequente della vittoria. Fa parte del gioco, e probabilmente va bene così.
C’è un’altra cosa che non va nel ragionamento di Lodoli, c’è un errore di prospettiva. Lui confronta l’esperienza e la cultura dei suoi alunni con quella sua privata, del giovane Marco Lodoli di quarant’anni fa, un Marco Lodoli che -sarà un caso? – sarebbe diventato insegnante e scrittore. Dico io: grazie che sentiva i russi come fratelli maggiori! Anch’io conosco degli studenti che fanno la stessa cosa; sono pochi, certo, ma non credo che siano tanti di meno di quanti ce ne fossero al tempo del Marco Lodoli quindicenne che leggeva Tolstoj ascoltando Bach o Debussy. Sono pochi e fanno di solito il liceo classico, e alcuni di loro faranno da grandi gli scrittori o i professori, e forse si lamenteranno dei giovani del 2052 che non amano le stesse cose che hanno amato loro, non hanno la stessa loro sensibilità ecc. Tutta colpa del 2052, reo tempo! Magari sbaglio: magari quarant’anni fa tutti passavano il tempo a leggere Delitto e castigo invece di correre dietro alle ragazze o a studiare il modo di come procurarsi un motorino, ma per i miei tempi (i fantastici anni Ottanta) posso garantire che non era già più così: persino quelli come me, che poi sarebbero finiti a fare i professori di lettere, non necessariamente passavano il tempo a scrivere madrigali ascoltando musica dodecafonica (cose così, al massimo, cominci a farle all’università, un posto ideale per perdere il contatto col mondo, e anche per renderti un po’ ridicolo). Per cui diamoci una regolata: i cultori dell’arte, dell’umanesimo, sono sempre stati una sparuta minoranza, e forse è giusto che sia così. Certo: in alcuni momenti della storia quella sparuta minoranza ha cambiato il mondo, ma l’ultima volta che è successo è stato qualche secolo fa: non è il caso di stracciarci le vesti oggi, perché da questo punto di vista il 2012 non credo sia tanto peggio del 1972; o del 2052.
Quindi? Quindi niente: i giovani di oggi sono diversi dai giovani di ieri, come i giovani di ieri erano diversi, quando avevano vent’anni, dai ventenni dell’altroieri. Embè? E l’arte, come la cultura umanistica, non è morta, è solo tremendamente minoritaria in una civiltà che guarda altrove; ma resiste, come ha sempre resistito da quando è nata: cambiando forma ma restando fedele alle domande essenziali (che poi – si sa – sono sempre le stesse: quelle senza risposta). E noi, senza restare prigionieri dei nostri fantasmi e con un po’ di curiosità per il presente, nel presente e nel futuro dobbiamo cercare di traghettare l’essenziale. Poi, qualcuno disposto a prendere il testimone ci sarà, con ogni probabilità. Come ci siamo stati noi quando è stato il nostro turno.
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Mi permetto di trascrivere qui, perché mi è molto piaciuto, il commento di F.S. al post da cui questo prende spunto, nella speranza che qui abbia un po’ più di visibilità, come merita:
Le ultime riflessioni con cui di Lodoli conclude il suo pezzo mi commuovono.
I nostri giovani vanno incontro ad un futuro che a noi pare difficile e oscuro e ci preoccupiamo per loro. Offriamo allora con insistenza le nostre ricette, i nostri modelli, ma a loro non bastano, ne sono anzi saturi prima ancora di conoscerli. I nostri giovani e il loro futuro sono scaturiti soprattutto da ciò che siamo e siamo stati noi adulti, come famiglie e come società. Essi sono i nostri figli e il mondo etico, sociale, politico, economico, ambientale, in cui da adulti si muoveranno, è l’ eredità che lasciamo loro. Detto questo, confesso che è con struggimento e rabbia che a volte considero i loro tentativi di stare in questo mondo.
La cultura umanista va insegnata ai ragazzi, ma, se essi la rifiutano, noi insegnanti dobbiamo riprovarci. Dobbiamo essere credibili. Se quello che insegniamo è importante dobbiamo farlo credere loro, dobbiamo mostralo. Dobbiamo trovare il modo. E’ una sfida per noi. Dobbiamo cercare nuovi metodi, investire tempo a cercarli e metterci in gioco. La storia va conosciuta, la letteratura va incontrata, esse debbono essere insegnate perché arricchiscono e aiutano a vivere, perché sono belle. Ma esse sono una delle tante cose belle della vita. E non debbono assolutamente diventare un pretesto per incolpare i nostri giovani, per disprezzarli. Essi hanno prima di tutto bisogno di fiducia e energia per “reggere l’urto delle onde fragorose del mondo che sarà, che è già qui”. Dobbiamo cercare di evitare di riempire il loro futuro con le nostre pesantezze. E come dice Gaber:Non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all’amore il resto è niente.