Idea di un delfino

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Cosa mi affascina di questo video? forse, nel rosso del tramonto, le pinne dei delfini che escono dall’acqua e sullo sfondo la sagoma di un cetaceo terragno ben più grande: la grande balena Conero; non so, forse di più il sonoro, le rare voci allegre dei delfini, quelle sommesse e meravigliate dei ragazzi sul moscone, che quasi non ci credono di essere testimoni e protagonisti di un contatto così vero, primordiale, con la natura. Due viventi sopra un pezzo di legno galleggiante che – mentre la notte che incombe cancella l’inutile dettaglio degli umani manufatti – incontrano altri tre viventi, diversi da loro, e giocano. Unico intruso: l’apparecchio elettronico che permette a noi di conoscere questo momento. Ma con esso siamo già fuori dall’evento, nel campo della narrazione, come qui.

Buona estate. E speriamo di incontrare i delfini.

Qualcosa si è rotto

Gab Golan, un giorno, fu invitato a pranzo in una casa dove avrebbe incontrato delle persone tanto anziane da ricordare la tragedia della guerra, vissuta sulla propria pelle insieme ai suoi nonni. Era, quella, una limpida giornata di primavera e Gab, andando a pranzo, si meravigliò ancora una volta dell’azzurro del mare sullo sfondo.

Quel giorno si parlò di tante cose, vennero fuori aneddoti divertenti e storie drammatiche, e Gab era contento perché sentiva che stava riannodando qualche filo della sua storia, intrecciandolo con quello di una storia più grande.

Fra una storia e l’altra, una vecchia signora aveva fatto un interessante discorso sui tedeschi, che non le stavano per niente simpatici, diceva, perché nessuno poteva toglierle dalla testa che se loro si fossero ribellati, Hitler non avrebbe potuto fare certe pazzie, soprattutto quella degli ebrei; anche se lei non era ebrea, era cristiana lei! ma non ci pensavano i tedeschi che sarebbero stati condannati dalla storia per questi orrori, si chiedeva la signora. Questo era il discorso, e a Gab non era nemmeno sembrato un discorso brutto. Ma a quel punto Gab fece un errore.

L’errore fu di guardare l’ora sul cellulare, e soprattutto di approfittarne per sbirciare un social network: fu così che gli comparve il messaggio di una giovane amica che diceva “700 minuti di silenzio”, e Gab, inquieto, scorse in giù alla ricerca di un senso a quelle parole, e vide accavallarsi notizie di mare, morti, scafisti, salvini, sciacalli, naufraghi, barconi, guerra, europa… E non servì leggere un articolo da cima a fondo per capire cosa stesse succedendo.

Gab, riemerso dal flusso di notizie, ci aveva pensato un po’ e poi aveva provato a dire ai commensali che, certo, non era la stessa cosa, non si possono paragonare due fatti storici così diversi, però chi ci dice che anche noi non saremo giudicati molto negativamente dalla storia? perché anche oggi, è innegabile, succedono cose orribili, anche vicino a noi, di cui siamo corresponsabili, e noi quasi sempre ci giriamo dall’altra parte. Adesso, per esempio, veniva fuori che proprio quella notte un’altra barca nel canale di Sicilia, forse settecento morti, eccetera eccetera. Cosa avrebbero detto i nostri nipoti di questa lunga e rimossa fila di morti per acqua?

***

Meglio farla finire qui, questa storia, perché nel seguito prendeva il sopravvento, a quel tavolo, il linguaggio della propaganda televisiva, i luoghi comuni dello scontro di civiltà. Nessuna possibilità – per Gab – di far valere (anche presso chi era stato un tempo vittima) le ragioni di chi muore per nostra colpa, o per nostra omissione, che è la stessa cosa.

Forse questo tentativo di sentirci innocenti finché si può, finché l’orrore non ci invade la casa, è umano: ma allora l’umanità è davvero terribile.

Gli anni Settanta, e due romanzi.

Un po’ di tempo fa, mi è stato chiesto da Macerata Racconta di provare a trovare un romanzo italiano che potesse servire da spunto per parlare, con i ragazzi di alcune scuole, degli anni Settanta. Io ho proposto Morte di un uomo felice, di Giorgio Fontana, un romanzo bello, sobrio e intenso (e per questo quasi “inattuale”, tanto più se si pensa che l’ha scritto un autore poco più che trentenne) che racconta la storia di un giudice in lotta contro il terrorismo, e che dai terroristi viene ucciso a Milano proprio nell’anno in cui Fontana è nato, il 1981. Da questo libro è nato un percorso che mi ha portato a parlare con ragazze e ragazzi nati alla fine degli anni Novanta o all’inizio degli anni Zero di quei circa dieci anni di storia d’Italia complicati e contraddittori in cui – incidentalmente – sono nato anche io: anni che erano iniziati sotto la grande spinta della contestazione e che sarebbero finiti nell’atmosfera plumbea raccontata con sensibilità dal romanzo di Fontana (il percorso si concluderà ai primi di maggio con l’incontro dell’autore con gli studenti).

Nella conversazione avuta con questi ragazzi (qui una traccia), ci siamo fra l’altro interrogati su come possa essere successo che lo slancio verso il futuro, rivoluzionario per certi aspetti, della fine degli anni Sessanta sia finito così male, fra stragi, violenze, droga, e peggio ancora un senso generale di sconfitta e inutilità che – negli anni della mia adolescenza – noi degli Ottanta abbiamo cercato di mascherare nei modi più vari, stordendoci di consumi o di qualcos’altro – qualsiasi cosa, bastava che ci evitasse di pensare troppo all’evidente assenza non solo di utopie, ma anche di prospettive.  Parlando di tutto questo ci è sembrato di individuare un nodo chiave nel 1977, anno di una nuova ondata di “movimenti” che però aveva caratteri del tutto diversi, perché in un contesto del tutto diverso nasceva: precarietà invece di crescita, rabbia invece di un utopia, spesso disperazione. Un anno che – a guardarlo da qui – non sembra neppure troppo diverso da quel che stiamo vivendo oggi, da quel che presumibilmente vive un ragazzo di oggi. Con un’aggravante, forse: c’è la rabbia, c’è la precarità, c’è la disperazione, ma non c’è in vista neppure l’ombra di un movimento verso qualcos’altro, e questo non migliora le cose.

Il 1977 è anche l’anno in cui si innamorano Aurora e Giovanni, i protagonisti di un romanzo uscito da poco, e che ho finito di leggere da pochi minuti, Gli anni al contrario di Nadia Terranova. Un breve romanzo ambientato per lo più a Messina, che racconta benissimo, in maniera essenziale e senza mai il bisogno di rifugiarsi nella ricostruzione storica o sociologica fine a sé stessa, la disfatta di una generazione rimasta incastrata nei propri sogni, o forse ancor di più in quelli di chi li aveva preceduti. Sogni in cui privato e politico si intrecciano, la voglia di cambiare il mondo e quella di affermare il proprio io non sempre si distinguono facilmente, e le trappole (la droga, la malattia da un lato, la necessità di sacrificare tutto per tirare avanti dall’altro) sembrano essere più forti di ogni volontà. In mezzo a tutto questo Mara, la bimba che subito nasce dalla relazione fra Aurora e Giovanni, e che deve crescere e trovare la sua strada fra due genitori che di strade aperte davanti a loro non ne vedono più. Il tutto è raccontato con una semplicità e una sintesi che all’inizio mi hanno quasi disturbato, poi mi hanno progressivamente conquistato, proprio per la scelta di non dire nulla di più dell’essenziale, sacrificando ogni vezzo e ogni appesantimento.

Giorgio Fontana, dicevo, nato nel 1981, fa morire proprio in quell’anno il suo giudice; mentre Mara nasce, se non ho fatto male i conti, proprio nello stesso anno di Nadia Terranova. In queste volute coincidenze sembra esserci la necessità per una generazione di fare i conti con quella precedente, ma anche il riconoscimento di una ciclicità, di una vicinanza, come se per trent’anni avessimo girato a vuoto e ora ci trovassimo con lo stesso spaesamento dei nostri vecchi, solo un po’ più disillusi, un po’ più stanchi. Però nell’ultima pagina [spoiler] de Gli anni al contrario prende la parola proprio Mara, ormai adulta e consapevole, e ci dice che quella fino a questo momento raccontata è la storia dei suoi occhi, occhi che fin dal giorno in cui è nata hanno inquietato e quasi impaurito per la loro profondità, e dentro ai quali c’è però una misteriosa forza per andare avanti. Forse, allora, anche negli occhi dei ragazzi di oggi, delle figlie e dei figli di questa mia generazione, c’è una qualche luce, una forza misteriosa, che noi a volte facciamo fatica a vedere, e che è la stessa luce profonda degli occhi di Mara, una luce che deve essere ancora raccontata.

Una fatica risparmiata

Provi a mettere a fuoco dei pensieri, vuoi farci un post, ma non ne hai voglia. Così aspetti qualche giorno, in attesa che la voglia arrivi e i pensieri diventino più chiari. Ma non arriva né la voglia né la chiarezza. Intanto, però, c’è chi scrive le stesse cose che stavi meditando tu, e molto meglio di quanto le avresti scritte tu. Che bella la rete: basta aspettare, e qualcuno, prima o poi, da qualche parte, fa qualsiasi cosa al posto tuo!

Così è andata anche questa volta, che volevo dichiarare pubblicamente le mie forti perplessità a proposito della prima prova dell’Esame di Stato 2014. Volevo sottolineare come al Ministero, dopo la scelta forte, quasi rivoluzionaria, fatta l’anno scorso proponendo per l’analisi del testo un brano molto poco ortodosso di Claudio Magris (una scelta che indicava una strada didatticamente difficile ma suggestiva), sia tornato indietro di almeno vent’anni, proponendo insensatamente una poesia di Quasimodo che non ha davvero nulla più da dire a nessuno, ormai. E volevo parlare di come abbia peggiorato le cose proponendo un saggio breve d’ambito artistico-letterario che di letterario non aveva proprio niente, a parte un insulso passo di un datato racconto della Deledda, pieno di spirito cristiano in salsa decadente che Dio ce ne scampi. Tutto molto reazionario, insomma. E aggiungo: didatticamente inconcepibile: un patrimonio letterario, e con esso la ricchezza di prospettive culturali e umane che elabora e trasmette, ridotto a stanchi riferimenti casuali, giustificati solo dall’etichetta del Nobel (quasi che, nella conflagrazione del canone, l’unico criterio di scelta rimasto ai burocrati ministeriali sia quello dell’opinabilissimo e criticamente insignificante premio svedese). Uno scenario, insomma, desolante. Tanto desolante da rendere  plausibile il pensiero che il piano sia semplice e terribile: svuotare completamente di senso lo studio delle letterature a scuola, fino a renderne accettabile, e persino auspicabile (presso l’opinione pubblica, e prima o poi anche presso gli addetti ai lavori), l’eliminazione, l’annientamento.

Volevo dire queste cose, insomma, sviluppare questi pensieri, ma poi per fortuna mi hanno segnalato un un pezzo di Marina Polacco su Le parole e le cose. E amen.

Orfini Matteo, presidente

Non so perché, ma stasera mi viene in mente questo episodio di qualche tempo fa.

Era la campagna elettorale per le primarie, quelle che poi Bersani ha vinto su Renzi, e poi il resto della storia la sappiamo. A Recanati viene a fare campagna elettorale per Bersani un giovane dirigente del PD, laureato in filosofia e responsabile della cultura del partito, Matteo Orfini e io, che in effetti in quella campagna elettorale mi ero schierato con Bersani, vado a sentirlo.

Alla fine del discorso di Orfini, in cui grosso modo si diceva “Bersani bene, Renzi brutto: votate Bersani”, e qualche intervento di membri del comitato che dicevano grosso modo “Bersani olè, Renzi buuu” ad una platea composta solo da gente già decisa a votare Bersani, anch’io sono intervenuto, convinto in buona fede che non fosse bello aver fatto venire un dirigente nazionale del PD a Recanati da Roma solo per fargli dire di votare Bersani a gente che già votava Bersani.

Sono intervenuto e ho detto, con tutta tranquillità, come fosse la cosa più normale del mondo, che però in effetti la presenza rinnovatrice-rottamatrice di Renzi era un’oggettiva buona notizia nel PD, perché rappresentava un’esigenza di svecchiamento della classe dirigente e di rottura di certe incrostazioni che nessuno, nemmeno il più sfegatato antirenziano, non poteva non vedere. E poi ho fatto una domanda, che suonava più o meno così: ma siamo poi così sicuri sicuri (non è che io non lo sia, ho detto: sono quasi sicuro, ma non sicuro sicuro sicuro) che quella socialdemocratica-ortodossa sia la risposta più ragionevole ai problemi strutturali dell’economia e della società italiana? non è che magari è il caso di superare la prospettiva limitata della difesa a oltranza di tutti i diritti di chi è già tutelato e guardare un po’ le cose anche dal punto di vista di chi non ha nessuna tutela sul lavoro, magari nessun lavoro, magari nulla di nulla? Non è questo il senso della sinistra, guardare le cose dalla parte degli ultimi? Siamo sicuri, allora, che il PD (e la CGIL) lo stiano facendo? E che per farlo basti dire che i diritti dei lavoratori non si toccano? Ecco, ho fatto domande così, non per provocare ma perché non avevo (non ho) le idee chiare su questo punto e mi sembrava che Orfini (che con Fassina è il più socialdemocratico dei dirigenti PD) fosse la persona giusta a cui chiedere. In una pubblica assemblea a Recanati di qualche tempo fa.

Non l’avessi mai fatto: Orfini, già mentre finivo di parlare, aveva subito una minima ma percettibile trasformazione fisica (la barbetta somigliava sempre più a un baffino) e la metamorfosi è risultata evidente quando ha iniziato a rispondere, perché ha parlato con i toni e i modi di un perfetto epigono di D’Alema (credo abbia esordito con “Francamente”, ma non posso giurarci), e mi ha fatto letteralmente nero, facendomi capire che RENZI E’ MALE e che i fighetti che mettono in discussione l’ortodossia socialdemocratica sono solo dei sabotatori, dei fascisti mascherati e, in poche parole, degli stronzi. Come me, insomma, che ho osato riconoscere qualcosa a Matteo Renzi, e ho usato la parola socialdemocrazia senza inchinarmi.

Mi è venuto in mente questo episodio, insomma, stasera. Chissà poi perché…

Non ci sono più i (***) di una volta

Tempo di scrutini: io quest’anno ne ho tre, tutti domani mattina. Le carte sono pronte, le valutazioni sono arrivate come la naturale prosecuzione di un percorso lungo un anno, e ho cercato di fare del mio meglio, come al solito, sperando che gli errori non siano troppi né troppo gravi. Le emozioni, quelle, le ho lasciate ai ragazzi, come ricordo.

Quindi non ho altro da fare, se non prepararmi ad ascoltare quel che si ascolta ad ogni consiglio di classe, e ad ogni scrutinio: la lamentatio sul fatto che non ci sono più i ragazzi di una volta, che mai come quest’anno ho fatto fatica, che, cari colleghi, io non so proprio più che fare le ho provate tutte ma questi proprio non ce la fanno saranno tutti questi smartphone questi social stanno sempre lì a spippettare ma che si diranno mai tutto il giorno. Questo, più o meno, ascolterò, e se nessuno lo dirà sarà solo perché lo si dà ormai per scontato, come la lettura del verbale della seduta precedente.

Insomma, il dato è questo: ogni anno gli studenti della mia scuola sono peggio dell’anno scorso. E questo avviene regolarmente ogni anno, da parecchio tempo. Una volta, ai vecchi tempi in cui frequentavo per mestiere biblioteche, mi sono trovato a scartabellare nei carteggi di qualche studioso o letterato di metà Ottocento, c’erano di mezzo Carducci, De Sanctis e altri pezzi da novanta del tempo: già allora era tutto un lamentarsi di quanto fossero scarse le nuove generazioni… Uno di questi giorni vado a recuperare qualche passaggio che m’ero trascritto, e magari lo metto qui, per chi fosse curioso. Insomma: è almeno da un secolo e mezzo (almeno, ma ci sono testimonianze anche dai tempi di Cicerone o forse anche di Socrate) che ogni anno i ragazzi sono tremendamente più scarsi dell’anno precedente. Mi chiedo: ma come mai ancora non siamo tornati a vivere nelle caverne? Come hanno fatto intere generazioni composte da individui progressivamente più indolenti e subdotati a tirare avanti la baracca? Mah…

Io ho sempre visto la cosa da un altro punto di vista: i ragazzi che abbiamo davanti hanno sempre la stessa età, noi invece ad ogni anno siamo di un anno più vecchi. I ragazzi sono come lo Zefiro che torna ogni primavera, e anche se noi – discretamente – cerchiamo di rubare come timidi vampiri un po’ della loro gioventù, il punto è che ogni anno siamo un po’ più distanti, un po’ più diversi dai ragazzi che abbiamo davanti. Saper gestire grazie all’esperienza (pur senza doverla o poterla annullare) quella distanza ogni anno crescente è forse uno dei compiti più importanti e stimolanti del mestiere di insegnante.

 

Un museo, una cartolina e un racconto

Stamattina ho avuto la fortuna di scoprire, con tutta calma e con guide d’eccezione, il nuovo Museo dell’Emigrazione Marchigiana, che da pochi mesi è stato aperto a Recanati. Un posto bello, poco conosciuto, ricco di stimoli e di prospettive, di immagini e di storie. Anche ricco di diverse e divertenti diavolerie moderne, che fra l’altro permettono di consultare un archivio di documenti e di cercare notizie di vecchi parenti emigrati in America o in qualche altro posto. Puoi, per esempio, cercare vecchie cartoline mandate da un emigrato ai parenti in Italia e inviarti via posta elettronica il file. Io, per esempio, mi sono mandato questa foto-cartolina che la famiglia Camillucci, originaria di Camporotondo di Fiastrone, ha “fatte in una bella linia di strada che ci passa tanti auti”.

MEMA

 

Con l’occasione mi è venuto anche in mente un racconto di cui avevo sentito parlare di Adrian N. Bravi, un bravo scrittore argentino-recanatese (oltre che una persona davvero squisita), intitolato Dopo la linea dell’Equatore. Tornando a casa l’ho cercato su internet, l’ho trovato e l’ho finalmente letto: è bellissimo.

Numeri, persone.

L’immagine qui sopra riportata, capitata sul video del mio pc all’ora di cena di un sabato piovoso, è insostenibile. Se al posto delle bare ci fossero stati i sacchi della monnezza (immagine usata da Adriano Sofri) o i corpi neri e bagnati di nafta e acqua salata, sarebbe stata più o meno intollerabile? Non lo so. Però so che questa qui, con le bare lucide di noce e mogano, e quelle laccate bianche, con gli attrezzi del soccorso e delle normali attività quotidiane sullo sfondo, con le etichette a dare un numero ai morti, in assenza del nome, esprime perfettamente la terribile anonimia di questa catastrofe.

Ieri mattina in III H abbiamo fatto un minuto di silenzio, dalle 12.00 alle 12.01, per ricordare queste vittime senza nome dell’ingiustizia e della chiusura. Durante quei minuti i ragazzi e le ragazze sono stati composti e seri, anche se probabilmente non sapevano molto di quel che era successo, anche se dalla finestra arrivavano rumori e urla che potevano distrarre o far scappare un sorriso inopportuno. Ma non è successo: qualcosa ognuno di quei ragazzi e ragazze doveva aver intuito, del lutto e della vergogna che ci aveva investito.

Durante quei sessanta secondi io ho pensato, come sempre, a quanto sono lunghi sessanta secondi, a passarli in silenzio in una classe di adolescenti. E mi sono chiesto se il ministro che li ha stabiliti abbia mai avuto la ventura di passare, quei sessanta secondi lì, con venti sedicenni che a malapena sanno perché, quel silenzio. E ho pensato che sono lunghi ma che sono anche troppo pochi per ricordare i morti: quanti morti? due? tre? quattro, per ogni secondo di silenzio? forse cinque, se diamo credito alle testimonianze dei superstiti.

Ma comunque tanti, e anonimi, come i morti dei terremoti e degli tsunami, nel lontano Giappone, in Cina o in paesi di cui nemmeno ci ricordiamo il nome. Tante bare dove facciamo persino fatica a immaginare un corpo, e tanto più a immaginare una persona che poche ore prima era viva, con i suoi pensieri, i suoi desideri, la sua storia.

Ecco: se c’è un dovere che abbiamo, noi, noi chiusi nelle nostre tiepide case, è quello almeno di sforzarci di conoscere quelle storie. E poi, secondo dovere, di capire le nostre responsabilità.

Intanto, per cominciare, può aiutarci un documentario bellissimo, Mare chiuso, che fino alla mezzanotte di domani può essere visto da tutti su vimeo, di Andrea Segre e Stefano Liberti (grazie Renata, che me l’hai segnalato). Dura un’ora e racconta la storia di un gruppo di profughi eritrei rifiutati barbaramente dall’Italia durante la funerea stagione dei cosiddetti “respingimenti”: oltre che ricordarci le nostre colpe, di portata storica, il documentario ci mostra la dignità, la bellezza, il calore che c’è dietro quelle persone che tante volte ci fa comodo trattare come numeri (gli stessi numeri che stanno scritti su quelle bare, per un triste nostro contrappasso). E viene da pensare, guardando il documentario, quanta ricchezza, quanta umanità ci regalerebbero quelle persone, se le accogliessimo.

Conoscere le storie e capire le responsabilità, dicevo. Perché sentire le storie di questi uomini e queste donne, vederli mentre cantano per farsi coraggio, nel barcone che presto verrà intercettato e ricacciato indietro, ci avvicina alla loro grande umanità, ma anche alla nostra vergogna. La vergogna di un popolo che si dice civile e che si è ritrovato ad avallare delle politiche barbare, che ha stretto un patto scellerato con una dittatura agli sgoccioli (patto sul quale, vergogna nella vergogna, il Partito Democratico non ha tenuto per niente una posizione limpida), che ora è rappresentato (proprio lì, a Lampedusa) da un ministro che parla di responsabilità dell’Europa ma fino a ieri è stato il primo artefice di quelle politiche scellerate. La vergogna, aggiungo, di indagare per clandestinità chi ha avuto la fortuna di raccontarla, di non finire in quelle bare. Saranno indagati, e a noi sembra incredibile: invece è normale, del tutto normale, saranno indagati come finora sono stati indagati gli scampati dalle tante, quotidiane e solo un po’ meno eclatanti stragi di migranti che avvengono con regolarità in quel mare nostro.

Normale, sì: in questa nostra civile Italia è perfettamente normale.

Il documentario, dicevo, dura un’ora. E non potete spenderla meglio, quell’ora. Ve lo giuro.

Calvino, l’Illuminismo, la libertà

Pubblico, con il suo consenso, la riflessione che un caro amico, Marco Riccini, voleva relegare in un commento ad un vecchio post d’argomento calviniano. Ma il testo meritava qualcosa di più, almeno un post tutto suo!

La ragione è ciò che ci accomuna, il massimo comune denominatore delle menti e personalità umane; 2+2 fa sempre 4, a tutte le latitudini, nonostante tutti i pregiudizi del mondo. L’illuminismo, insistendo sul valore della ragione, sottolinea i tratti di comune umanità, ci dice che in quanto uomini siamo uguali, rifiuta l’idea di nazione (un insieme basato su presupposti inconsistenti), abbraccia l’ideale cosmopolita.

Il sentimento è ciò che ci distingue; di fronte al medesimo spettacolo, qualcuno può avvertire un moto di riprovazione, altri di attrazione, altri di sottile compiacimento, altri di sconcerto. Il romanticismo, insistendo sul valore del sentimento, sottolinea l’importanza dell’individualità (possibilmente creatrice), singolare e collettiva: la patria è una anche “di cuor”, come insegna Manzoni; dicendoci che in quanto uomini (e gruppi di uomini) siamo diversi fra di noi, il romanticismo esalta l’idea di individuo (e di nazione).

Cosimo Piovasco di Rondò è un illuminista, anticonformista: sembra rifiutare l’idea che l’uguaglianza debba portare all’omologazione, alla rinuncia a se stessi e alla propria identità; compie un gesto (molti gesti) dirompenti, apparentemente illogici, in realtà sempre compiutamente razionali e dominati dall’idea di fare il bene proprio e degli altri, senza rinunciare ad affermare la propria individualità con le proprie azioni, che forse è un modo di dire “libertà”.

Il Barone rampante esce nel 1957, scritto, a quanto pare, tra dicembre ’56 e primi del ’57. Nel 1956 c’era stata la repressione sovietica a Budapest, dove il grigiore dell’omologazione comunista (lontana ed estrema erede dell’illuminismo?) aveva negato la possibilità di fare qualcosa di diverso, aveva fatto capire agli ungheresi di non poter sopportare il loro desiderio di libertà.

(di Marco Riccini)

Un centrodestra europeo

Mi sono iscritto al PD, e ho deciso di dare una mano entrando nel Direttivo recanatese di questo partito, convinto che l’unico argine alle destre al potere praticamente da vent’anni fosse un partito di centrosinistra con basi solide nel paese e un consenso elettorale capace di fare massa critica. Consideravo le alternative a sinistra (alle quali mi sentivo idealmente più vicino, per molti versi) velleitarie, nostalgiche, affette da un inveterato autocompiacimento (anche l’autocompiacimento della sconfitta, del sentirsi sempre e comunque a proprio agio in una minoranza – Moretti docet).

Non ero, certo, uno sprovveduto – o meglio: certamente lo ero, ma non del tutto. Vedevo molte delle criticità presenti nel PD, un partito nato con un progetto che è stato ucciso nella culla, e che è diventato ostaggio degli ex-DS e degli ex-Margherita (le definizioni, checché se ne dica, ancora più utili e chiare per analizzare i movimenti interni di questo partito nel marasma); ma pensavo che valesse la pena di provarci: c’era un popolo bello alla base, qualche dirigente giovane su cui scommettere, una amministrazione del comune in cui vivo che lasciava ben sperare.

Ora è successo quel che è successo: Renzi, le primarie, Bersani, le altre primarie, la campagna elettorale, Grillo, ancora Bersani, il governo di cambiamento, lo streaming, Marini, Prodi, la carica dei 101, Napolitano, Letta. Ed eccoci qui. Il PD è morto, la sinistra è morta, e anch’io non mi sento tanto bene. E intanto Civati, che da tempo è diventato il mio punto di riferimento politico, è candidato alla segreteria ma non ha convinto nemmeno un parlamentare che sia uno a seguire la sua linea, e da solo è uscito dall’aula per non votare la fiducia a Letta, e magari è anche a rischio espulsione. Che, per un aspirante segretario di un partito, non è proprio il massimo.

Adesso abbiamo il governo Letta (auguri! per il bene dell’Italia, alla fine, tocca augurarsi pure che funzioni, anche se non ho nessun motivo per essere ottimista), fondato sul matrimonio con Berlusconi (sembra però uno di quei matrimoni che si fanno a Las Vegas, con la luna di miele che può durare anche solo un giorno).

Insomma, a me pare che abbiano vinto quelli che volevano trasformare il PD in un onesto, liberale, democratico partito di centrodestra europeo, amico dei poteri forti e difensore dello status quo, che garantisce la classe medio-alta e si tiene buoni i disperati con un po’ di assistenzialismo, che considera la scuola e la sanità pubblica l’ultimo dei valori costituzionali da difendere: quell’oggetto, insomma, che la destra italiana non è stata in grado di concepire e realizzare. Magari è anche una buona idea, qualcosa che serve all’Italia. Ma – se è così – non è più la mia casa, perché la mia casa è dove le parole equità e solidarietà, ecologia e sviluppo sostenibile, beni comuni e redistribuzione della ricchezza hanno ancora un senso. La mia casa è in fondo a sinistra.