Qualche amico, come Fabio Curzi, lo va dicendo almeno dalla metà degli anni Novanta, quando eravamo ancora poco più che ragazzi e su internet si navigava con Altavista e si chattava con mIRC, e pensare di aprire un blog era qualcosa di pioneristico: la filologia, col suo metodo, la sua ermeneutica e la sua complicata e affascinante storia, ha moltissimo da dire nell’epoca del web.
Cosa resta di un *testo* in questo mare infinito di bit? E della volontà dell’autore nell’epoca della post-verità e della manipolazione continua dei dati? E quelle grandi biblioteche frantumate che sono i magazzini pieni di fili e scatoloni metallici che contengono, dislocati nelle più anonime periferie urbane e in sperdute zone industriali, la nostra memoria collettiva, il nostro cloud – come dobbiamo pensare tutto questo? Ecco, forse la filologia (troppo spesso considerata, persino da chi la fa, come un esercizio erudito ed esoterico) offre in realtà un armamentario formidabile per capire quel che sta succedendo nel campo della conoscenza e della sua trasmissione, oggi.
Basta aprire un manuale di filologia e scorrere l’indice: ci sono un sacco di parole che ci suonano molto familiari (e problematiche): libro, scrittura, materiali scrittori, citazioni, trasmissione dei testi, originale/copia/tradizione, varianti, autenticità/attribuzione/datazione, rapporti fra i testimoni, e via dicendo. E non è un caso.
Vabbe’, era solo per segnalare un articolo molto interessante sul tema: questo (di Claudio Lagomarsini, da Il Post).