Serve ancora la filologia?

headermswQualche amico, come Fabio Curzi, lo va dicendo almeno dalla metà degli anni Novanta, quando eravamo ancora poco più che ragazzi e su internet si navigava con Altavista e si chattava con mIRC, e pensare di aprire un blog era qualcosa di pioneristico: la filologia, col suo metodo, la sua ermeneutica e la sua complicata e affascinante storia, ha moltissimo da dire nell’epoca del web.

Cosa resta di un *testo* in questo mare infinito di bit? E della volontà dell’autore nell’epoca della post-verità e della manipolazione continua dei dati? E quelle grandi biblioteche frantumate che sono i magazzini pieni di fili e scatoloni metallici che contengono, dislocati nelle più anonime periferie urbane e in sperdute zone industriali, la nostra memoria collettiva, il nostro cloud – come dobbiamo pensare tutto questo? Ecco, forse la filologia (troppo spesso considerata, persino da chi la fa, come un esercizio erudito ed esoterico) offre in realtà un armamentario formidabile per capire quel che sta succedendo nel campo della conoscenza e della sua trasmissione, oggi.

Basta aprire un manuale di filologia e scorrere l’indice: ci sono un sacco di parole che ci suonano molto familiari (e problematiche): libro, scrittura, materiali scrittori, citazioni, trasmissione dei testi, originale/copia/tradizione, varianti, autenticità/attribuzione/datazione, rapporti fra i testimoni, e via dicendo. E non è un caso.

Vabbe’, era solo per segnalare un articolo molto interessante sul tema: questo (di Claudio Lagomarsini, da Il Post).

 

 

Elogio de la sombra

Piccolo apologo estemporaneo, anche a mo’ di anticipazione di una cosa imminente.

Passeggiavo per Macerata. Mi fermo a guardare la vetrina della mia libreria, e noto un paio di libri di poesie, che come in quella collana famosa di Einaudi (ma questi non sono Einaudi) hanno in copertina una delle poesie della raccolta: ottima cosa, la poesia non può pubblicizzarsi che con la poesia, o col silenzio. Leggo allora le poesie in copertina, sono di Ennio Cavalli entrambe, e mi piacciono entrambe, la prima è questa:

Superlativo di adesso è mai più.
Di acceso, arso vivo.
Più che vicino significa dentro, oppure
denso, fiato, fede.
Al culmine dell’allegria, il disinnesco.
Superlativo di inoltre è un bel nulla,
ovvia ripezione o viceversa.
Se guardi le parole in controluce
qualcuna è vera. Continua a leggere

Preistoria digitale, gente che scappa, streghe che bruciano

Tutti sappiamo che una volta risolto il problema della quantità artistica sarà inevitabile occuparsi della sua selezione. Molti però oggi pensano, e non a torto, che nella preistoria digitale nella quale siamo immersi, questo non sia ancora accaduto se non per un numero molto limitato di utilizzatori avanzati. E che anzi molto spesso gli algoritmi, i mercanti e la (nostra) psiche, favoriscano l’esatto contrario.

E’ un brano tratto da un articolo di Massimo Mantellini di cui non credo di condividere l’idea di fondo (non è bello cancellare la propria pagina facebook o twitter perché così scompaiono pezzi di vita digitale di chi ha interagito con te: e allora?) ma che è pieno di riflessioni molto stimolanti su quel che sta cambiando nel rapporto fra artisti e pubblico, e più in generale fra persone che producono e si scambiano informazioni e idee in rete. Continua a leggere

Strategie di comunicazione

In una intervista sul suo rapporto con i social network, lo scrittore Giulio Mozzi ha elencato gli elementi che caratterizzano, da sempre, la sua “strategia di comunicazione”, su Facebook e non solo. Mi pare meritino di essere meditati.

Ho una strategia di comunicazione, non solo per Facebook e non da quando Facebook esiste. Le scelte strategiche sono poche: (a) stare a sentire, (b) dire solo cose vere e verificabili, (c) fare attenzione alle retoriche, (d) esprimere il minimo indispensabile di opinioni, (e) non commettere abuso di potere, (f) non far finta di non avere un potere, (g) proteggere la mia persona.

Idea di un delfino

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Cosa mi affascina di questo video? forse, nel rosso del tramonto, le pinne dei delfini che escono dall’acqua e sullo sfondo la sagoma di un cetaceo terragno ben più grande: la grande balena Conero; non so, forse di più il sonoro, le rare voci allegre dei delfini, quelle sommesse e meravigliate dei ragazzi sul moscone, che quasi non ci credono di essere testimoni e protagonisti di un contatto così vero, primordiale, con la natura. Due viventi sopra un pezzo di legno galleggiante che – mentre la notte che incombe cancella l’inutile dettaglio degli umani manufatti – incontrano altri tre viventi, diversi da loro, e giocano. Unico intruso: l’apparecchio elettronico che permette a noi di conoscere questo momento. Ma con esso siamo già fuori dall’evento, nel campo della narrazione, come qui.

Buona estate. E speriamo di incontrare i delfini.

“E’ Omero!”

Avete presente il brivido quando il gessetto stride sulla lavagna? Ecco, provo qualcosa di simile ogni volta che rivedo (sarà la quinta o sesta volta stamattina: sono un po’ masochista) questo video e arrivo al punto in cui il belloccio un po’ attempato dice con aria compunta “…è Omero!”.

Ora, io non sono un classicista e Iliade Odissea non me le ricordo a memoria, ma mi pare quantomeno strano che nessuno si sia mai accorto della derivazione omerica di una delle frasi più note e citate di Orazio (Ep. I, XI),  e che adesso, a informarci che quella frase il poeta latino l’ha rubata al greco ce lo venga a rivelare uno spot televisivo! Insomma, no: non è Omero, è Orazio, Quinto Orazio Flacco, poeta latino che in quella immagine condensa una delle sue più peculiari riflessioni esistenziali.

E uno, allora, si chiede come possa essere successo che uno spot che va su una rete nazionale (io l’ho visto domenica 29 marzo 2015 su La7, nel primo pomeriggio), pensato per reclamizzare una nuova collana di Classici Latini e Greci (non filo interdentale o spugnette abrasive), una collana che prevede ben 60 volumi, possa aver preso una cantonata tanto clamorosa.

A domande come questa, come a tutte le altre domande, ormai può rispondere solo google: basta infatti scrivere “frasi famose omero”, aprire il primo sito proposto, scorrere l’elenco delle citazioni omeriche e all’ottavo posto si trova – attribuita appunto ad Omero e non ad Orazio – proprio la citazione incriminata, tradotta – guarda caso! – esattamente con le stesse parole usate dall’attore nello spot. Pistola fumante.

A questo punto immaginare la scena è fin troppo facile: una società editrice male in arnese decide di tirare fuori dai magazzini una vecchia collana, rifarle il look, e lanciarla sul mercato sperando che qualche centinaio di italiani abbia uno scaffale in tinello da riempire. Chiama un’agenzia pubblicitaria dove la pratica finisce ad un povero stagista, magari proveniente da scienze della comunicazione, che in quattro e quattr’otto deve metter su uno spot, con pochissimi soldi e poco tempo. Chiama un amico del DAMS e il suo vecchio maestro di teatro e mettono su un set in salotto. Manca però lo script, ma per fortuna c’è google ecc. ecc.

Lo stagista ha tutta la mia comprensione, ci mancherebbe, però un consiglio per la prossima volta: se devi lanciare una collana di classici, non dico di andarteli a leggere, ma almeno fai una telefonata al compagno di scuola che aveva 8 in latino; o magari anche alla tua prof di lettere: vedrai che sarà contenta di darti una mano. Considerato che i suoi studi classici non servono a niente, non le sembrerà vero, per una volta, di poter dare – gratis – un piccolo contributo a rendere il tuo lavoro, e quello della grande macchina della produzione e diffusione di cultura nel nostro paese, più preciso e accurato. E poi, se la vai a trovare a casa, magari ti offre anche un piatto di minestra calda.

Passando di qua…

nebbia

– Toh! Chi si rivede!

– Oh, ciao! Passavo di qua…
– Ah, a proposito: Buone Feste, eh!
– Ah già: a te…

Gli auguri per le festività natalizie ai tempi dei social network sono diventati terribili, tanto che m’è del tutto passata la voglia di farli (chissà, forse semplicemente le potenzialità enormi della tecnologia hanno fatto esplodere ai miei occhi un’ipocrisia che in fondo è quella che c’è sempre stata? Mah…).

Finché ti arrivano anonimi auguri dalla mailing list del tuo supermercato o del tuo dentista, passi, è una forma di marketing come un’altra; però avere il cellulare invaso dagli auguri “circolari” di parenti e amici, boh, magari va anche bene, è l’unica cosa possibile da fare, ma a me crea un po’ di disagio. Gli anni scorsi rispondevo puntigliosamente a questi messaggi circolari, uno ad uno, mettendo in evidenza, con un riferimento preciso (a un nome, a un legame…) che la mia non era una risposta stardard. Ma alla fine il mio più che un augurio diventava, forse, quasi un rimprovero. Basta così, dunque: accetto serenamente l’affermazione di questa nuova pratica, e la archivio come rumore di fondo. Poi se con qualcuno ci sarà modo di vedersi, sentirsi, scambiarsi uno sguardo o una lettera o un biglietto, e in questo modo far passare il calore di un saluto e di un augurio, bene. Con tutti gli altri, sarà per un’altra volta.

Per quanto riguarda questo blog, esso si associa agli auguri di uno che, su queste cose come su tante altre, è un punto di riferimento insostituibile.

Elogio dell’ignoranza (consapevole)

Sono abbastanza convinto che l’ignoranza, se accompagnata da un minimo di modestia, non sia poi tutto questo male. In fondo, il punto non è essere ignoranti o dotti, è solo capire quanto si è ignoranti, a questo mondo. Ma se manca l’umiltà, l’ignoranza diventa il primo dei peccati capitali.

Ho appena letto questo interessante apologo: una vicenda capitata a Romano Luperini, importante studioso di letteratura, nonché autore di importanti manuali per la scuola. E’ la storia di una piccola e apparentemente insignificante divergenza interpretativa su una poesia di Montale, che lo ha contrapposto, alla fine di una conferenza, ad un giovane insegnante armato di tablet e di molta sicumera. Ma il senso dell’episodio va ben oltre la letteratura, e richiama ancora una volta il valore universale dell’arte dell’interpretazione, la lezione etica e democratica che dall’umile e lungo lavoro del critico – di ogni vero critico – si può trarre.

Conclude Luperini:

La democrazia non è chiacchiera vuota, non è dire la prima cosa che salta in mente, né esibizione di sé; implica anzitutto documentazione accurata, conoscenza dei problemi, consapevolezza dei propri limiti e, conseguentemente, predisposizione all’ascolto e al confronto che solo un accertamento condiviso dei dati di fatto può garantire.

* L’insegnante con cui Luperini si scontra fa parte del M5S, ma non mi pare questo il punto centrale: preferisco pensare che gli atteggiamenti di certi (molti?) “grillini” siano solo l’epifenomeno di una tendenza molto più generale…

** Destino ha voluto che scrivessi questo post proprio nel giorno in cui ci lasciava un grande critico, Cesare Segre.

Questo paese chiamato Italia

Un giorno ho letto un’intervista ad Amedo Quondam, un vecchio italianista sornione, pubblicata in occasione del suo ritiro dai ruoli dell’Accademia. Mi aveva colpito che, riferendosi a questo paese in cui a lui e a me è capitato di nascere e vivere, usasse la perifrasi “un paese chiamato Italia”, come a volerci insinuare qualche dubbio, magari che ormai sia rimasto poco più che questa etichetta – il nome Italia – a tenere insieme l’ambaradàn. O magari voleva soltanto ricordarci che c’è voluto che qualcuno decidesse di “chiamarlo” (e raccontarlo, descriverlo, accusarlo, denigralo anche – ma in ogni modo “dirlo”), questo paese, perché esistesse – insomma, che le parole (le parole di questa lingua chiamata italiano) sono alla fin fine le nostre radici: mutevoli e contorte, fragili e volanti. Non so, insomma, di preciso cosa volesse dire Quondam, però quel vezzo linguistico è rimasto nella mia memoria, come un modo un po’ meno retorico del solito per riferirsi all’argomento retorico per antonomasia: l’identità e la patria. E alla fine è diventato, faut de mieux, il titolo di un ciclo di incontri che inizia lunedì, e a cui tutti siete invitati. Secondo me, come direbbe Claudio Gaetani, ce gusta.

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Stage diving

Per la serie “quando la realtà supera la fantasia” ovvero “notizie che sembrano prese da Lercio.it  e invece”.

La realtà, dicevo:

E la fantasia:

Se non ricordo male, nel film, dopo l’episodio del tuffo, il protagonista entra in crisi esistenziale e lascia perdere con la musica. E non era nemmeno quello che si era lanciato, ma solo il chitarrista del gruppo. Chissà Morgan.

(da una segnalazione di R.C. via facebook, che ringrazio)

(prima che qualche solerte passante, e ce ne sono, me lo faccia notare, segnalo l’ur-dive di School of Rock – peraltro ancora più efficace di quello del frontman di Mastandrea…; anche qui, comunque, non è farina del mio sacco…)