C’è tempo

Ho scoperto per caso, un venerdì mattina, questa versione di C’è tempo. A parte il fatto che è, se non ho capito male, del 2014, cioè un anno dopo la decisione di Fossati di non fare più dischi propri e concerti, e già questo mi commuove. Ma poi, poi tutto il resto… Insomma, che vi devo dire: a me piace, va bene?

 

Questo paese chiamato Italia

Un giorno ho letto un’intervista ad Amedo Quondam, un vecchio italianista sornione, pubblicata in occasione del suo ritiro dai ruoli dell’Accademia. Mi aveva colpito che, riferendosi a questo paese in cui a lui e a me è capitato di nascere e vivere, usasse la perifrasi “un paese chiamato Italia”, come a volerci insinuare qualche dubbio, magari che ormai sia rimasto poco più che questa etichetta – il nome Italia – a tenere insieme l’ambaradàn. O magari voleva soltanto ricordarci che c’è voluto che qualcuno decidesse di “chiamarlo” (e raccontarlo, descriverlo, accusarlo, denigralo anche – ma in ogni modo “dirlo”), questo paese, perché esistesse – insomma, che le parole (le parole di questa lingua chiamata italiano) sono alla fin fine le nostre radici: mutevoli e contorte, fragili e volanti. Non so, insomma, di preciso cosa volesse dire Quondam, però quel vezzo linguistico è rimasto nella mia memoria, come un modo un po’ meno retorico del solito per riferirsi all’argomento retorico per antonomasia: l’identità e la patria. E alla fine è diventato, faut de mieux, il titolo di un ciclo di incontri che inizia lunedì, e a cui tutti siete invitati. Secondo me, come direbbe Claudio Gaetani, ce gusta.

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Un lungo intervallo

In questo periodo ho un po’ da fare, e la testa un po’ piena quindi non riesco a ritagliarmi lo spazio per qualche pensiero da condividere qui. Nessuno si preoccupi: torno presto!

Intanto segnalo, per chi non lo avesse ancora visto, quello che è già stato definito – con qualche ragione – il vero manifesto per la rinascita della sinistra (da non confondere con l’altro, che pure esce oggi).

La cronaca siamo noi

Guardavo alla tv un programma sullo scandalo bancario, sotto scorrevano, come usa oggi, i commenti via twitter degli spettatori. Uno, crudele, mi ha ricordato questo post del maggio scorso.

Ecco, così va la vita. E intanto Hollande si è scoperto generale, il Pdl rimonta nei sondaggi, e ho anche il raffreddore.

Però, nonostante tutto, l’ultimo album di De Gregori non mi è sembrato malaccio, e sabato scorso mi ha fatto una bella compagnia mentre facevo i mestieri. Il seguente pezzo mi è piaciuto in particolare (la scenetta descritta nel ritornello, ancora più in particolare).

Ma come si sa sono di parte.

 

 

La storia eravamo noi

I commenti alla vittoria di Hollande, il sempre più chiaro massacro del Pdl, la fine della pioggia (con relativa corsetta in riva al fiume), e per concludere una gustosa tranquilla cenetta a casa: poteva anche essere una bella serata. Poi ho visto questo:


(la neve deve aver fatto secchi molti ulivi, in quel di Spello…)

Aggiornamento: un’affezionata lettrice del blog ( 🙂 ) mi segnala questo reportage sul committente dello spot. Sono sempre più felice.

Aggiornamento 2: in una sua canzone De Gregori scrive: “tu da che parte stai? / stai dalla parte di chi ruba nei supermercati / o di chi li ha costruiti / rubando”. Essendo il nostro un grande ammiratore di Brecht, ho sempre pensato che nello scrivere quei versi avesse in mente il famoso apoftegma “Cos’è rapinare una banca a paragone del fondare una banca?”. Ma in fondo anche La storia tratta temi molto simili a Domande di un lettore operaio, che anni dopo sarà citata espressamente in Il cuoco di Salò. E il cerchio, in qualche modo, si chiude.

Un ricordo

Quando avevo più o meno quattordici anni mi misi in testa di imparare a suonare la chitarra (poi non ci sono riuscito), così comprai una chitarra, un libriccino con gli schemi degli accordi, e un quadernone. Sul quadernone scrissi i testi di alcune canzoni di cui avevo trovato gli accordi non so bene come. Erano quattro o cinque in tutto, credo. Mi ricordo Generale, Margherita, Questo piccolo grande amore e poi una canzone che canticchiava qualcuno in famiglia, una canzone in forma di lettera. Scrivere a mano una canzone è già un buon modo per fermarsi a pensare al testo; provare a cantarla mettendoci sotto un giro di accordi che ancora le dita non si decidono a padroneggiare è perfetto per fermarsi su ogni parola. Fu così che pensai a quanto era geniale quella battuta su miracoli più o meno straordinari riguardanti muti e sordi, ma soprattutto che mi affezionai a quel finale in cui c’era un dolce e malinconico senso della perdita, del tempo che rapisce tutto: un sentimento del tempo che poi avrei ritrovato in mille poeti, ma che forse allora per la prima volta colpì la mia immaginazione, e mi strinse il cuore. “L’anno che sta arrivando fra un anno passerà. Io mi sto preparando: è questa la novità”.

Con quelle canzoni scritte a mano sul quadernone non facevo grandi passi avanti, però non volevo mollare. Decisi di potenziare l’armamentario didattico: dal quadernone passai alle fotocopie di uno di quei libretti con le canzoni e gli accordi che usavano gli Scout. Il mio non era degli Scout ma di una associazione di operai cristiani: cambia poco. Fra le canzoni con gli accordi facili che provavo ce n’era una che diceva: “A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io. Avrei bisogno di pregare Dio, ma la mia vita non la cambierò mai mai. A modo mio quel che sono l’ho voluto io: lenzuola bianche per coprirci non ne ho sotto le stelle in Piazza Grande, e se la vita non ha sogni io li ho, e te li do. E se non ci sarà più gente come me voglio morire in Piazza Grande, tra i gatti che non han padrone come me attorno a me.”

Avevo più o meno quattordici anni, e mi sembrava un bellissimo programma di vita e di libertà.

Il capitano che si sparava negli occhi

Di ora in ora si accredita l’ipotesi che la Costa Concordia si sia avvicinata (troppo) all’Isola del Giglio per fare un salutino all’isola medesima e ai suoi abitanti. Leggere da ieri questa notizia su giornali on line e blog non rende la cosa in sé meno lunare. Uno si immagina che le rotte delle navi, come quelle degli aerei, siano gestite in maniera rigida, secondo complicati e ferrei protocolli di sicurezza. Io per guidare la mia Punto (meno di una tonnellata, massimo 4 persone a bordo) devo rispettare un sacco di regole, e non mi sognerei nemmeno ubriaco di andarci contromano in autostrada per – che ne so – far colpo su una ragazza. Invece un capitano di nave (capitano di nave, ovvero nobiltà, coraggio, aristocrazia, al massimo lo sfizio innocuo di una ragazza in ogni porto) per fare un salutino ad un’isola avrebbe portato la Costa Concordia (115.000 tonnellate, un massimo di 4880 persone a bordo) a schiantarsi maldestramente contro uno scoglio.

Invece va così. Il ragazzino, mentre impenna col suo motorino truccato dà un po’ troppo gas e si spezza la colonna vertebrale. Il pilota si fa bello con le ragazze, al pub vicino alla base militare, perché lui è capace, dice, di passare col suo jet supersonico sotto la funivia;  l’ha anche già fatto altre volte, dice; poi quel giorno passa troppo vicino, troppo, fino a sfiorare il cavo. Il figlio dell’industriale si fa comprare per i vent’anni la Pòrsc intestata alla ditta, e vuole far vedere agli amici quanta cazzo di potenza c’ha sotto il cofano questa qua! “Ma non avremo bevuto troppo, stasera?”. “Mavalà, così te la godi di più, l’ebressa”. Il capitano di nave deve (magari su istigazione della stessa compagnia, chissà, per rendere il tutto più spettacolare) stupire le attempate signore di prima classe.

Non ci cvedevai, cava… siamo passati così vicini al Giglio – sì, eva sicuvamente il Giglio, e poi l’ha detto anche il capitano, che ce la indicava dalle vetvate del salone delle feste – ti sembvava quasi di toccavle, le luci del povto. Dovevi stavci, guavda… vedevi anche la gente che fotogvafava, dalla viva, un’emozione unica, una delle cose più belle della cvocieva. Vuoi vedeve le foto, cava?

Un destino tragicamente ridicolo rovinarsi per vanteria, per rendere il viaggio più sorprendente, per ricevere lettere di congratulazioni dal sindaco di un’isola. Ora questo capitano è in galera, perché fra l’altro non avrebbe nemmeno saputo rispettare quella regola d’onore della marineria che vuole il capitano a bordo finché tutta la nave non è stata evacuata (e faceva uno strano effetto sentirlo dire, ieri, che lui era sceso per ultimo, quando già si sapeva che mancavano all’appello molte persone, che verosimilmente sono sulla nave ancora adesso, probabilmente nelle cabine sotto il livello del mare dei membri più infimi dell’equipaggio, garzoni filippini e cinesi, la moderna terza classe). Pare che l’abbiano ritrovato sotto shock proprio su quegli scogli che con un’altra improvvida uscita aveva provato a dichiarare inesistenti sulle mappe nautiche.

Cosa avrà pensato vedendo davanti a sé, da quegli scogli, il cadavere obliquo di quel suo giocattolo da 450 miliardi di euro, quel divertimentificio inclinato su un fianco, quella pesantissima metafora dell’imbecillità umana?

Aggiornamento (16/1/2012, ore 12.40): leggo oggi che le ragioni della sciagurata manovra sono state più futili ancora di quelle pur futilissime che avevo immaginato io.

Titoli di testa

Una cosa era certa: non avrei cominciato a scrivere questo blog finché non gli avessi trovato un titolo che mi sembrasse adeguato. Fosse stato per le cose da dire, gli appunti da prendere, i pensieri da fissare, TQC poteva essere nato molto tempo fa. Non foss’altro perché per uno che passa un po’ di tempo sulla rete un blog è un buon modo di prendere appunti, per se stesso prima che per gli altri.

Però mi mancava il titolo: da tempo ci pensavo, e ogni tanto ho anche registrato su wordpress dei domini dai nomi banali o bizzari, che ora stanno lì, vuoti, probabilmente destinati a non essere mai usati. Molti di quei nomi erano omaggi più o meno espliciti ad autori che amo. Ad esempio avevo pensato di chiamare questo blog lesnuageslabas, in onore del primo dei piccoli poemi in prosa di Baudelaire, il cui protagonista professa un amore esclusivo per le nuvole che corrono all’orizzonte; ma magari ne sarebbe nato un blog vagamente poetico, certamente fumoso, lontano dalla concretezza dei giorni, delle cose che faccio e che vedo, così ci ho rinunciato. Ha avuto poi anche l’inevitabile tentazione leopardiana, e ho registrato sia operettemorali sia lericordanze sia, con una certa maggiore convinzione, leremitadegliappennini, l’appellativo con cui Leopardi veniva chiamato da un amico svizzero-fiorentino, e che certo dice qualcosa di me, di questi miei anni a Recanati.

Ma i titoli letterari sono sempre rischiosi, vincolanti, pretenziosi. Così sono passato a tutt’altro e nella mia testa per un po’ il futuro blog si è chiamato nonmeneintendo, un intercalare che usava come premessa ad ogni discorso un’amica, in una stagione lontana: in fondo qui parlerò come sempre di cose che conosco poco, avendo rinunciato da tempo ad essere specialista in qualcosa, e quel titolo poteva essere davvero il più adatto. Ma sarei passato per il falso modesto che poi pontifica su tutto, e così ho lasciato perdere anche questo titolo.

Ci sono state anche ipotesi diverse, come canepino, un omaggio (suggerito da Fabio) al luogo dove sono cresciuto; o gabgolan, il nome che mi ha dato una volta Marco e che uso spesso sulla rete; o altri ancora che non ricordo più.

Poi l’altro giorno, per caso, ho riascoltato una vecchia canzone di Francesco De Gregori, e ho sentito la sua voce fermarsi su queste tre parole banali e perfette prima che qualcuno dal pubblico urlasse – fuori tempo – l’ultima parola (“passare”) del verso; parola che poi De Gregori, burbero e indifferente, ha cantato quand’era giusto farlo, poche battute dopo.

Banale, perfetto, fuori tempo. In quel momento ho capito che questo blog poteva cominciare ad esistere.

Aggiornamento: …e invece mi dicono che i blog non sono poi così fuori tempo come pensavo…