Sarà che oggi ho rivisto A. dopo una settimana difficile e siamo finiti a parlare di sepolture. Sarà che la gente non se la smette di morire. Sarà che novembre. Fatto sta che il leitmotiv di questa giornata è la… insomma, Lei.
Lo scorso 31 ottobre se n’è andato Remo Ceserani, grande e brillante studioso, uomo sorridente sempre proiettato sul futuro. Per qualche motivo il suo profilo pubblico su facebook è ancora aperto. Il 22 novembre era il suo compleanno, e più di ottanta persone, gentili ma distratte (nonostante che wikipedia avesse aggiornato in tempo reale il profilo), due giorni fa gli hanno fatto gli auguri. Un tizio gli ha mandato un messaggio preconfezionato del tipo “Auguri, professore, fatti un regalo comprandoti un libro della mia casa editrice” (giustamente, è stato preso a male parole). Cose così. Mi è capitato di vedere questa pagina, mi è sembrata oscena. La dimostrazione immediata e irrefutabile dell’assurdità di questa social media community di cui faccio parte pure io. Di cui facciamo parte tutti, qui.
Oggi, invece, ci ha lasciato Vittorio Sermonti, tre giorni fa scriveva “Mi prendo qualche giorno di riposo, i vostri commenti mi faranno compagnia”. Non mi stupirebbe che l’abbia fatto a posta, ci starebbe nel personaggio ironico e raffinatissimo. In ogni caso, spero che a fargli compagnia sia soprattutto il silenzio, la prossima volta che compirà gli anni, il 26 settembre 2017.
Quanto a me, spero di vivere abbastanza a lungo da essermi (prima) stancato del mondo virtuale della rete e (dopo) di essere sufficientemente disperso nella stratosferica mole di caotiche informazione di cui essa rete è fatta.
Umberto Eco (1932-2016) e Paolo Poli (1929-2016) parlano di Franti, scuola e conformismo. Il video è del 1970 e dura 7 minuti e 34 secondi. Se non l’avete mai visto (ma anche se l’avete già visto), sette minuti e trentaquattro secondi del vostro preziosissimo tempo li merita.
Oggi è morto Igor Mitoraj. Per me è soprattutto l’autore delle opere di inquietante bellezza – frammenti di enormi statue deflagrate – che vedevo da studente, nel 1995, in giro per Macerata. Mi ricordo in particolare questa, sopra la rotonda dei Giardini Diaz, con questi occhi ciechi e l’espressione assorta. Guardandola, e leggendo il nome dell’autore che suonava slavo, pensavo alle bombe che ancora cadevano di là dell’Adriatico e insieme al mito, alla bellezza classica di cui mi nutrivo a lezione. E cercavo una difficile sintesi, che infatti non veniva.
In realtà, non sono tante le immagini di quegli anni che porto impresse nella memoria, ma questa sì, posso metterla agli atti.
(L’unica cosa strana è che nel mio ricordo questa scultura era bianca!)
1. Partiamo dalla fine. Dalle emozioni. Io non mi considero un passionale, non mi piace la retorica esibita e di solito ho un approccio piuttosto razionale alle opere dell’ingegno, a volte più di quanto vorrei; non mi capita spesso, insomma, di commuovermi per un film, una canzone o un libro. Però l’altra sera, uscendo dalla proiezione di Quando c’era Berlinguer, quello che provavo era decisamente fisico e prerazionale. Avevo bisogno d’aria, il groppo in gola era forte e per un po’ ho girato per le vie di Ancona in uno stato mentale vagamente alterato. Guardavo i palazzi, il cielo, le finestre, e mi dicevo “Questi sono i palazzi e il cielo d’Italia: il mio paese. E il paese dove Berlinguer è stato segretario del PCI; dentro quelle finestre magari vive qualcuno che ha votato, che ha amato Berlinguer; e Berlinguer ha respirato questa aria e non un’altra, parlato questa lingua e non un’altra, in questa lingua avrà scritto la sua prima lettera, e certamente in questa lingua ha pronunciato il suo ultimo comizio”. E questa cosa, non so bene perché, mi faceva amare un po’ di più quell’aria, quelle finestre, questo paese (non posso dire che mi sentivo parte di un popolo, ma mi sentivo come se un popolo fosse possibile). Pensavo cose così, insomma, un po’ strane per me che – finché Berlinguer è stato vivo, ed è stato vivo fin quasi ai miei 12 anni – non avevo un’idea ben chiara di chi fosse, forse non ne avevo affatto idea. E anche dopo, devo confessare, è a lungo rimasta una figura lontana, con la quale non avevo il rapporto sentimentale che percepivo dai discorsi di chi aveva più anni di me, viveva in famiglie di sinistra o aveva concepito una passione politica più precoce della mia. Eppure l’altra sera, uscendo dal cinema, mi sono sentito proprio come se io a Berlinguer gli avessi voluto bene da sempre, come tutti, senza saperlo. Come tutti. E’ come se tanti piccoli indizi della memoria, tante tracce politiche e insieme sentimentali della mia vita fossero riaffiorate inaspettate, come misteriose e minuscole creature acquatiche, e andassero a riunirsi in un punto preciso della superficie della mia coscienza. La storia della vita di un uomo politico da quando diventa segretario del maggior partito comunista d’occidente alla sua morte, insomma, non solo era una storia che mi riguardava, ma in qualche modo era anche una storia mia. Possibile? Possibile.
2. Il primo film di Walter Veltroni, dunque, è un film che mi ha commosso. E questo mi rende poco obiettivo. Infatti per me è un film molto bello; e per diversi motivi. In primo luogo perché credo che Veltroni trovi la distanza giusta da cui raccontare la storia: non prova un impossibile distacco, ma la sua resta una presenza discreta: una battuta su Ferrara, qualche accenno autobiografico (la prima telecamera, una foto, una sensazione), un intervistato che si rivolge a lui, intervistatore fuori campo, e lo critica. E’ bello poi perché il regista alla prima esperienza non cerca di strafare: le scelte registiche sono semplici, chiare, quasi elementari, la più bella di queste scelte è quella che dà senso al titolo, ovvero mostrare i luoghi di Berlinguer (la sua scuola, la prigione dove l’hanno messo i fascisti nel 1944, la sala del Cremlino dove ha tenuto uno storico discorso di rottura, l’albergo dove è morto, la piazza dei suo funerali) completamente vuoti, privi, oggi, di quella vita, e di quel senso che avevano “quando c’era Berlinguer”. Il film è il continuo richiamo di un’assenza (di certa politica, di certi valori, di certe figure…): questa assenza è il messaggio del film all’oggi.
3. E’ facile dire – è stato detto – che un film come questo è un film nostalgico, o peggio un film per reduci da un mondo che non c’è più. Non credo sia così, e questo proprio perché non è stato fatto da un regista qualsiasi, ma da un politico, uno dei protagonisti – nel bene e nel male, piuttosto nel male – della storia del partito di Berlinguer, o dovrei dire della storia della fine del partito di Berlinguer. Qualcuno ha anche detto che Veltroni ha avuto proprio un bel coraggio, a fare il santino di quel PCI, di quella sinistra che lui ha contribuito a distruggere. Ha avuto un bel coraggio sì, dico io, perché non è un film apologetico, non mi pare faccia sconti a chi – regista compreso – è venuto dopo: il film è anche, indubbiamente, la storia di una persona, e di una generazione, che ha perso. Un’autocritica, anche. La stessa pulsione pedagogica, che è forse la pulsione principale del film, parla della sconfitta inappellabile della generazione di Veltroni: “giusto era il segno” – sembra dirci – ma noi non l’abbiamo saputo ben interpretare: provateci voi, dimenticandoci.
4. Storia di una sconfitta, dicevo. Chi questa sconfitta la impersona meglio, nel film, è Giorgio Napolitano, che si commuove quando dice che, ai funerali di Berlinguer, lui ebbe la sensazione che con lui moriva l’ideale a cui entrambi avevano dedicato la vita (loro due, pur così lontani). Mi è sembrato di una grande forza tragica che l’attuale Presidente della nostra Repubblica confessi, quasi piangendo, di considerare la storia degli ultimi trent’anni della sua vita come quella di un reduce di una guerra perduta. E dirlo lì, dall’alto del Quirinale e dei suoi novant’anni. (Le interviste sono, a mio avviso, i momenti meno riusciti del film, spesso noiose e un po’ irritanti, con questa gente arrivata, vestita elegante, che disserta da questi terrazzi romani, con sfondi di cieli chiari e luminosi… ma riservano almeno un altro momento bello e terribile: i pochi secondi in cui compare Pietro Ingrao, quasi centenario, fragilissimo, la cui vita sembra ormai essersi tutta concentrata nel cipiglio degli occhi, nella smorfia della bocca).
5. Ma è naturalmente Berlinguer la grande figura tragica, e lo diventa grazie in particolare al suo ultimo, straziante comizio. Ricordavo vagamente quelle immagini, avevo negli occhi qualche frammento, ma vederle lì, sul grande schermo, dentro la narrazione di una vita, assumono una forza davvero enorme. Lui che, con quel volto scavato, quella giacca a scacchi troppo grande, con sofferenza lotta contro l’ictus che sta arrivando per finire di pronunciare il suo discorso. Si ferma, beve un goccio d’acqua che poi vuole tornare su dalla gola, si porta la mano alla bocca, si china, si ferma ancora; poi ricomincia, dice qualche altra parola, a stento, un altro sorso d’acqua: la piazza applaude prima per incoraggiare, poi per chiedergli di smettere, per dire che loro hanno capito tutto, che si deve riposare. Ma lui va ancora avanti, ancora qualche brandello di parola, poi una pausa più lunga, applausi. Berlinguer guarda la folla, e per un attimo – è il momento del film – sorride timidamente (piace pensare che, chissà, in quel sorriso forse ci sia una consapevolezza: della morte che arriva, del senso di una vita che si chiarisce nello stare lui lì, a morire davanti a quel popolo che lo applaude) e poi con nuova forza chiude il suo discorso, tutto d’un fiato. Alla fine le immagini di repertorio si troncano, e sappiamo dalla cronaca che morirà dopo un’agonia di quattro giorni.
6. Si dirà: quella che fa Veltroni è la costruzione di un’epopea, di una narrazione retorica. Rispondo: vero, e allora? Le storie degli eroi tragici ed epici sono sempre narrazioni, e noi le leggiamo per questo: perché in quelle storie non cerchiamo la verità storica, cerchiamo un senso per noi. Da Ettore a Johnny il partigiano. E, se può servire a recuperare un certo modo di intendere politica e vita civile, perché non anche l’epopea di Enrico Berlinguer? Io non so se gli storici saranno contenti di questo film (a me pare abbastanza onesto anche da quel punto di vista) però è certo che io vi ho riconosciuto una storia che mi riguarda, e che mi indica anche – nei modi e nei valori di questo vecchio signore che portava gli stessi improbabili gilet di lana di mio nonno, le stesse giacche a scacchettini – modi e valori a cui ispirarmi. Io, in questi tempi di grande confusione, non so più bene come dare un contributo alla vita civile di questo paese, ma di certo riportare nel pubblico dibattito le storie di queste vite – e soprattutto l’etica che le ha ispirate – mi pare un obiettivo per cui vale ancora la pena di spendersi.
7. E torniamo alla vocazione pedagogica del film, che forse a qualcuno può anche dare fastidio. Come a qualcuno hanno dato fastidio le prime scene, con le interviste a ragazze e ragazzi di oggi che – il più delle volte – non sanno nemmeno chi fosse Berlinguer (un cantante? un leader di estrama destra? un francese? qualcuno che aveva a che fare con l’Europa e con la Corea?). Molti vi hanno visto l’indignazione del regista, ormai uomo anziano, che non si capacita di come i giovani d’oggi possano essere così ignoranti, di come sia possibile che si sia spezzata così irrimediabilmente la memoria. In realtà il film non rimprovera nulla ai giovani, semmai prende atto di un fatto che, se appare sconcertante a chi giovane non è, è solo a causa della sua prospettiva viziata sulle cose. I figli hanno il diritto di non conoscere le vite dei padri, se gli stessi padri dimenticano pezzi importanti delle loro esistenze, se tradiscono la loro giovinezza per inseguire altre chimere. Veltroni, a mio avviso, con questo film riconosce questo errore, e prova (magari un po’ goffamente, un po’ tardivamente) a rimediare (non per questo dovremo però assolverlo dai suoi errori politici, né mi sembra che ce lo chieda). Se qualcosa vuole fare, dunque, questo film, non è tanto raccontare ai giovani com’era bello il mondo quando c’era Berlinguer, vuole piuttosto ricordare a tutti noi che non si deve dare nulla per scontato, e che se c’è qualcosa di buono nelle nostre storie passate dobbiamo prendercene cura, e raccontarlo: nessun altro lo farà al posto nostro.
(Ho visto il film al Goldoni di Ancona, la sera del 5 aprile 2014)
Succede un fatto terribile, che sconvolge (come è ovvio) un’intera comunità (e chi scrive), qualche giovane fascista ci vede una bella occasione per ottenere visibilità invocando la pena di morte (ma a questo punto non sarebbe meglio un bel linciaggio come ai vecchi tempi, magari con tanto di cartolina commemorativa?), e la stampa online locale soffia sul fuoco, per qualche contatto in più.
Non sarebbe meglio ragionare su come fare in modo che gli assassini siano presi e paghino il giusto, in un paese dove carceri e giustizia funzionino veramente (non così, ad esempio)?
Ho visto Bella addormentata la sera in cui è uscito nelle sale. Anzi: la sera prima, perché il multisala dove ero andato per vedere l’ennesimo film sulla scuola aveva deciso di anticipare di un giorno la proiezione dell’opera di Bellocchio. Questo non significa che l’abbia visto per sbaglio: ci sarei andato comunque e comunque prima possibile, perché il tema mi è sempre stato molto caro, perché Bellocchio è un regista che non sempre capisco ma che sempre mi interroga, e anche perché Bella addormentataè uno di quei film che quando l’hai visto poi hai qualcosa di cui parlare con gli amici per qualche mese almeno. Ci sarei andato lo stesso, dunque, ma il contrattempo ha avuto, in ogni caso, delle conseguenze sulla visione, per due motivi. Primo motivo: non ero assolutamente preparato al film; né la ragione né le emozioni erano state allertate, e sono stato catapultato in un mondo che non era quello che pensavo avrei abitato quella sera. Secondo motivo: andavo al cinema con una compagnia un po’ diversa dal solito; si doveva vedere un film sulla scuola e stavo, guarda caso, fra insegnanti; e nella compagnia c’era un fervente cattolico molto attento all’ortodossia, e una donna appena reduce da un lutto, costretta a sperimentare sulla pelle di una persona cara la brutale concretezza di espressioni apparentemente algide come “interruzione dell’accanimento terapeutico”. C’erano, dunque, le premesse per un’esperienza forte. E tale è stata, in effetti.
A me, tanto vale dirlo subito, il film è piaciuto moltissimo. Anzi: pur nella imperfezione di tanti aspetti singoli, mi è sembrato un film perfetto. Spiego: Bellocchio secondo me si è fatto carico di una sfida quasi impossibile: trattare in un’opera d’arte un caso umano (o di cronaca, o politico, o giudiziario, o culturale, o non so come altro definirlo) così tormentoso e complesso come quello di Eluana Englaro, e del filo di vita e di morte che l’ha legata per tanti anni al padre Beppino (e non solo a lui). Era, obiettivamente, qualcosa di difficilissimo. Fra i pericoli dell’apologo morale da una parte e dell’estetica da fiction dall’altra, non c’erano molte strade, forse una soltanto, e quella strada secondo me Bellocchio l’ha saputa percorrere. Per questo dico che è un film perfetto, perché è forse l’unico film che su questo tema si potesse fare. Per realizzarlo Bellocchio non solo ha tolto il corpo e i volti dei protagonisti veri dalla scena (scelta per tanti versi necessaria); ha anche riempito il film – come è nella sua poetica – di personaggi che non si preoccupano mai di sembrare realistici ma che sono, nella trasfigurazione dell’arte, sempre (o almeno: molto spesso) veri. Sono personaggi esagerati, spesso nevrotici, a volte disturbati e disturbanti, sempre terribilmente inquieti e fragili di fronte ai problemi ultimi. Ritratti deformati di tutti noi, alla fin fine.
Accanto a questo, c’è anche un discorso sulla società. Non propriamente un discorso politico, ma sulla crisi di cultura e di umanità che attanaglia il nostro vivere di italiani di oggi, e che trova nella politica, se non altro, uno specchio. Partiamo da un dettaglio, che poi tanto dettaglio non è: molti dei personaggi del film sono costretti dal regista a fare i conti con la presenza ossessiva di schermi televisivi che proiettano le loro luci livide e spettrali su corpi, volti, oggetti. In una scena misteriosa e affascinante due uomini (un fratello, un padre) completamente proiettati su sé stessi, sulle loro ambizioni e sulle loro sconfitte, anche di fronte al coma della sorella, alla follia della moglie, rimangono attoniti a guardare su uno schermo enorme le evoluzioni sottomarine di giganteschi e inquietanti ippopotami. Ma è soprattutto nelle stanze della politica – attraversate dal sempre bravissimo Toni Servillo – che la televisione è onnipresente. Nell’era berlusconiana (di cui il film compone il ritratto più convincente che mi sia stato dato di vedere) la televisione è onnipresente, dalle stanze del potere all’ultimo tinello: in ogni stanza del Palazzo vengono trasmessi i tg o i discorsi dei parlamentari (quasi a dire che tali discorsi hanno ragion d’essere solo se teletrasmessi); persino nel surreale bagno turco che è teatro di alcune fra le scene più riuscite del film (ad esempio l’ormai noto dialogo fra il Senatore-Servillo e lo Psichiatra-Herlitzka) c’è sempre uno schermo su cui scorrono informazioni relative ai lavori dell’Aula; in un’altra scena i politici di Forza Italia si fanno una foto, ma i loro veri volti sono oscurati dalla proiezione di un filmino propagandistico. Fino ad un momento che m’è parso geniale: un personaggio sta per entrare nell’Aula del Parlamento, e sta davanti ad una grande ed elegante porta di legno, la porta si apre e dentro si vede, invece dell’aula, una riproduzione video (piuttosto sgranata) della stessa.
Il film mi pare, insomma, la metafora di un paese che ha perso la sua umanità, senza guida etica e morale; la massa imbestiata dal rincitrullimento televisivo, gli individui lasciati soli con le loro cose e le loro idee, le loro idiosincrasie, le loro nevrotiche paure. Non mi è sembrato, invece, un film (solo) sui problemi etici, tanto meno un film che su quei problemi vuole dirci la sua verità, o darci la sua ricetta. Forse ci chiede solo, in assenza della struttura etica e politica necessaria ad un paese per affrontarli con serenità, di non strumentalizzarli a fini di parte.
Mi pare anche che sia un film sui confini, e sulla loro essenza labile, equivoca. Le cose, lì sul bordo, non sempre sono semplici e chiare, e non sempre sono quel che sembrano. Di fronte a quel tremendo e intimo momento in cui un essere umano smette di vivere, be’, dire qualche verità assoluta è molto rischioso, e evitare equivoci non è facile. In conclusione, dopo il film mi viene da ribadire ancora una volta quel poco che da tempo sostengo, su questi argomenti: come sembra volerci dire anche l’epilogo della vicenda umana del Cardinale Martini, quei momenti non possono essere di altri che del morente e di chi, con lui, ha condiviso una vita di legami e di affetti. E nessun potere, politico o religioso, può rivendicare la proprietà e la giurisdizione su quel territorio.
Dopo aver visto il film, ho letto qualche recensione (non molte in verità). Fra tutte mi ha stupito quella, inutilmente livorosa (fin dal titolo) e priva di qualsiasi empatia artistica, di Michela Murgia, che legge il film solo con gli occhi delle categorie politico-religiose (cattolici e laici, radicali e clericali…), senza nessuno sforzo per cercare di entrare nel mondo del regista. Ha dell’incredibile, se penso che la Murgia è l’autrice di Accabadora, libro che ho amato molto, e molto ho raccomandato proprio per la sensibilità con cui accosta temi complessi quali l’eutanasia. Comunque ho capito che con i consigli di lettura e di visione dell’autrice sarda devo andarci molto cauto: una sua prefazione al romanzo L’ultima tentazione di Cristo, anticipata sul suo blog (e che mi era piaciuta parecchio), mi ha già spinto, l’estate scorsa, ad una delle letture più faticose e aride degli ultimi anni: quello di Kazantzakis è un libro noioso, di troppe pagine e di poche idee, che non merita certo i soldi necessari ad acquistare la ristampa niente affatto economica prefata dalla Murgia. Ve lo dico: sono soldi sprecati: usateli piuttosto per andare a vedere il film di Bellocchio; e vi resteranno anche gli spiccioli per i popcorn.
Molto bella, invece, la recensione di Gianluca. Anche se forse non è bello citarsi a vicenda…
Se poi volete la recensione di un critico cinematografico vero…
Quando avevo più o meno quattordici anni mi misi in testa di imparare a suonare la chitarra (poi non ci sono riuscito), così comprai una chitarra, un libriccino con gli schemi degli accordi, e un quadernone. Sul quadernone scrissi i testi di alcune canzoni di cui avevo trovato gli accordi non so bene come. Erano quattro o cinque in tutto, credo. Mi ricordo Generale, Margherita, Questo piccolo grande amore e poi una canzone che canticchiava qualcuno in famiglia, una canzone in forma di lettera. Scrivere a mano una canzone è già un buon modo per fermarsi a pensare al testo; provare a cantarla mettendoci sotto un giro di accordi che ancora le dita non si decidono a padroneggiare è perfetto per fermarsi su ogni parola. Fu così che pensai a quanto era geniale quella battuta su miracoli più o meno straordinari riguardanti muti e sordi, ma soprattutto che mi affezionai a quel finale in cui c’era un dolce e malinconico senso della perdita, del tempo che rapisce tutto: un sentimento del tempo che poi avrei ritrovato in mille poeti, ma che forse allora per la prima volta colpì la mia immaginazione, e mi strinse il cuore. “L’anno che sta arrivando fra un anno passerà. Io mi sto preparando: è questa la novità”.
Con quelle canzoni scritte a mano sul quadernone non facevo grandi passi avanti, però non volevo mollare. Decisi di potenziare l’armamentario didattico: dal quadernone passai alle fotocopie di uno di quei libretti con le canzoni e gli accordi che usavano gli Scout. Il mio non era degli Scout ma di una associazione di operai cristiani: cambia poco. Fra le canzoni con gli accordi facili che provavo ce n’era una che diceva: “A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io. Avrei bisogno di pregare Dio, ma la mia vita non la cambierò mai mai. A modo mio quel che sono l’ho voluto io: lenzuola bianche per coprirci non ne ho sotto le stelle in Piazza Grande, e se la vita non ha sogni io li ho, e te li do. E se non ci sarà più gente come me voglio morire in Piazza Grande, tra i gatti che non han padrone come me attorno a me.”
Avevo più o meno quattordici anni, e mi sembrava un bellissimo programma di vita e di libertà.
Quando hai lasciato agli altri i destini del mondo a te resta tutto il bello della vita (C.F. 1926-2012)
In un lungo necrologio Nello Ajello, immagino con una certa cognizione di causa, ricorda Carlo Fruttero come un uomo ha sempre schivato con una coerente “scelta antiretorica e antifilosofica” di porsi “le domande ultime”, uno che ha vissuto la vita con un misto di cinismo, ironia e disincanto e ha affrontato la morte come “un laico nel senso più pieno del termine”. Mi sono detto: ora io non so di preciso cosa significhi essere laico, né conosco abbastanza Fruttero da poter dire se è vero che non si sia mai posto “le domande ultime”; so solo che imparare a non porsele sembrerebbe un esercizio al di fuori della mia portata.
Oggi, poi, che ho letto in classe il finale del Dialogo di Tristano e di un amico, e mi sono ancora una volta stupito della lucidità con cui guardava alla morte uno che le domande ultime se le era poste tutte, e si era dato anche le sue risposte.
E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana.
Poi, nella stessa pagina, leggo (in un articolo di Antonio Gnoli che non trovo in rete, qui un estratto) alcune frasi di un Fruttero vecchissimo, già orfano di Lucentini: “La vecchiaia è un aggiustamento continuo con cacciavite e chiave inglese. Tiri avanti. Anche la morte di Franco l’ho dovuta mandar giù e adesso quando scrivo, quando penso è come se mi sdoppiassi. Cerco sempre di vedere con il suo occhio quello che faccio”. E ancora: “(la morte) Non mi fa paura, ho un po’ d’ansia per il fatto che al momento possa soffrire e dopo non so. Con Franco discutevamo della morte. Lui diceva: guarda Carlo non se ne può parlare in senso proprio. Va considerata come un viaggio. Ecco stiamo a vedere come sarà questo viaggio. La morte è inverosimile. Perché quello che succede dopo non è raccontabile. E allora, fino a quando non senti bussare i primi colpi non ci credi, non ti sembra possibile”. Ecco: laico e pieno di pietas, non certo estraneo alle domande ultime, alle quali nessun uomo può veramente sentirsi estraneo.