Berlinguer (ti voglio bene)

1. Partiamo dalla fine. Dalle emozioni. Io non mi considero un passionale, non mi piace la retorica esibita e di solito ho un approccio piuttosto razionale alle opere dell’ingegno, a volte più di quanto vorrei; non mi capita spesso, insomma, di commuovermi per un film, una canzone o un libro. Però l’altra sera, uscendo dalla proiezione di Quando c’era Berlinguer, quello che provavo era decisamente fisico e prerazionale. Avevo bisogno d’aria, il groppo in gola era forte e per un po’ ho girato per le vie di Ancona in uno stato mentale vagamente alterato. Guardavo i palazzi, il cielo, le finestre, e mi dicevo “Questi sono i palazzi e il cielo d’Italia: il mio paese. E il paese dove Berlinguer è stato segretario del PCI; dentro quelle finestre magari vive qualcuno che ha votato, che ha amato Berlinguer; e Berlinguer ha respirato questa aria e non un’altra, parlato questa lingua e non un’altra, in questa lingua avrà scritto la sua prima lettera, e certamente in questa lingua ha pronunciato il suo ultimo comizio”. E questa cosa, non so bene perché, mi faceva amare un po’ di più quell’aria, quelle finestre, questo paese (non posso dire che mi sentivo parte di un popolo, ma mi sentivo come se un popolo fosse possibile). Pensavo cose così, insomma, un po’ strane per me che – finché Berlinguer è stato vivo, ed è stato vivo fin quasi ai miei 12 anni – non avevo un’idea ben chiara di chi fosse, forse non ne avevo affatto idea. E anche dopo, devo confessare, è a lungo rimasta una figura lontana, con la quale non avevo il rapporto sentimentale che percepivo dai discorsi di chi aveva più anni di me, viveva in famiglie di sinistra o aveva concepito una passione politica più precoce della mia. Eppure l’altra sera, uscendo dal cinema, mi sono sentito proprio come se io a Berlinguer gli avessi voluto bene da sempre, come tutti, senza saperlo. Come tutti. E’ come se tanti piccoli indizi della memoria, tante tracce politiche e insieme sentimentali della mia vita fossero riaffiorate inaspettate, come misteriose e minuscole creature acquatiche, e andassero a riunirsi in un punto preciso della superficie della mia coscienza. La storia della vita di un uomo politico da quando diventa segretario del maggior partito comunista d’occidente alla sua morte, insomma, non solo era una storia che mi riguardava, ma in qualche modo era anche una storia mia. Possibile? Possibile.

2. Il primo film di Walter Veltroni, dunque, è un film che mi ha commosso. E questo mi rende poco obiettivo. Infatti per me è un film molto bello; e per diversi motivi. In primo luogo perché credo che Veltroni trovi la distanza giusta da cui raccontare la storia: non prova un impossibile distacco, ma la sua resta una presenza discreta: una battuta su Ferrara, qualche accenno autobiografico (la prima telecamera, una foto, una sensazione), un intervistato che si rivolge a lui, intervistatore fuori campo, e lo critica. E’ bello poi perché il regista alla prima esperienza non cerca di strafare: le scelte registiche sono semplici, chiare, quasi elementari, la più bella di queste scelte è quella che dà senso al titolo, ovvero mostrare i luoghi di Berlinguer (la sua scuola, la prigione dove l’hanno messo i fascisti nel 1944, la sala del Cremlino dove ha tenuto uno storico discorso di rottura, l’albergo dove è morto, la piazza dei suo funerali) completamente vuoti, privi, oggi, di quella vita, e di quel senso che avevano “quando c’era Berlinguer”. Il film è il continuo richiamo di un’assenza (di certa politica, di certi valori, di certe figure…): questa assenza è il messaggio del film all’oggi.

3. E’ facile dire – è stato detto – che un film come questo è un film nostalgico, o peggio un film per reduci da un mondo che non c’è più. Non credo sia così, e questo proprio perché non è stato fatto da un regista qualsiasi, ma da un politico, uno dei protagonisti – nel bene e nel male, piuttosto nel male – della storia del partito di Berlinguer, o dovrei dire della storia della fine del partito di Berlinguer. Qualcuno ha anche detto che Veltroni ha avuto proprio un bel coraggio, a fare il santino di quel PCI, di quella sinistra che lui ha contribuito a distruggere. Ha avuto un bel coraggio sì, dico io, perché non è un film apologetico, non mi pare faccia sconti a chi – regista compreso – è venuto dopo: il film è anche, indubbiamente, la storia di una persona, e di una generazione, che ha perso. Un’autocritica, anche. La stessa pulsione pedagogica, che è forse la pulsione principale del film, parla della sconfitta inappellabile della generazione di Veltroni: “giusto era il segno” – sembra dirci – ma noi non l’abbiamo saputo ben interpretare: provateci voi, dimenticandoci.

4. Storia di una sconfitta, dicevo. Chi questa sconfitta la impersona meglio, nel film, è Giorgio Napolitano, che si commuove quando dice che, ai funerali di Berlinguer, lui ebbe la sensazione che con lui moriva l’ideale a cui entrambi avevano dedicato la vita (loro due, pur così lontani). Mi è sembrato di una grande forza tragica che l’attuale Presidente della nostra Repubblica confessi, quasi piangendo, di considerare la storia degli ultimi trent’anni della sua vita come quella di un reduce di una guerra perduta. E dirlo lì, dall’alto del Quirinale e dei suoi novant’anni. (Le interviste sono, a mio avviso, i momenti meno riusciti del film, spesso noiose e un po’ irritanti, con questa gente arrivata, vestita elegante, che disserta da questi terrazzi romani, con sfondi di cieli chiari e luminosi… ma riservano almeno un altro momento bello e terribile: i pochi secondi in cui compare Pietro Ingrao, quasi centenario, fragilissimo, la cui vita sembra ormai essersi tutta concentrata nel cipiglio degli occhi, nella smorfia della bocca).

5. Ma è naturalmente Berlinguer la grande figura tragica, e lo diventa grazie in particolare al suo ultimo, straziante comizio. Ricordavo vagamente quelle immagini, avevo negli occhi qualche frammento, ma vederle lì, sul grande schermo, dentro la narrazione di una vita, assumono una forza davvero enorme. Lui che, con quel volto scavato, quella giacca a scacchi troppo grande, con sofferenza lotta contro l’ictus che sta arrivando per finire di pronunciare il suo discorso. Si ferma, beve un goccio d’acqua che poi vuole tornare su dalla gola, si porta la mano alla bocca, si china, si ferma ancora; poi ricomincia, dice qualche altra parola, a stento, un altro sorso d’acqua: la piazza applaude prima per incoraggiare, poi per chiedergli di smettere, per dire che loro hanno capito tutto, che si deve riposare. Ma lui va ancora avanti, ancora qualche brandello di parola, poi una pausa più lunga, applausi. Berlinguer guarda la folla, e per un attimo – è il momento del film – sorride timidamente (piace pensare che, chissà, in quel sorriso forse ci sia una consapevolezza: della morte che arriva, del senso di una vita che si chiarisce nello stare lui lì, a morire davanti a quel popolo che lo applaude) e poi con nuova forza chiude il suo discorso, tutto d’un fiato. Alla fine le immagini di repertorio si troncano, e sappiamo dalla cronaca che morirà dopo un’agonia di quattro giorni.

6. Si dirà: quella che fa Veltroni è la costruzione di un’epopea, di una narrazione retorica. Rispondo: vero, e allora? Le storie degli eroi tragici ed epici sono sempre narrazioni, e noi le leggiamo per questo: perché in quelle storie non cerchiamo la verità storica, cerchiamo un senso per noi. Da Ettore a Johnny il partigiano. E, se può servire a recuperare un certo modo di intendere politica e vita civile, perché non anche l’epopea di Enrico Berlinguer? Io non so se gli storici saranno contenti di questo film (a me pare abbastanza onesto anche da quel punto di vista) però è certo che io vi ho riconosciuto una storia che mi riguarda, e che mi indica anche – nei modi e nei valori di questo vecchio signore che portava gli stessi improbabili gilet di lana di mio nonno, le stesse giacche a scacchettini – modi e valori a cui ispirarmi. Io, in questi tempi di grande confusione, non so più bene come dare un contributo alla vita civile di questo paese, ma di certo riportare nel pubblico dibattito le storie di queste vite – e soprattutto l’etica che le ha ispirate – mi pare un obiettivo per cui vale ancora la pena di spendersi.

7. E torniamo alla vocazione pedagogica del film, che forse a qualcuno può anche dare fastidio. Come a qualcuno hanno dato fastidio le prime scene, con le interviste a ragazze e ragazzi di oggi che – il più delle volte – non sanno nemmeno chi fosse Berlinguer (un cantante? un leader di estrama destra? un francese? qualcuno che aveva a che fare con l’Europa e con la Corea?). Molti vi hanno visto l’indignazione del regista, ormai uomo anziano, che non si capacita di come i giovani d’oggi possano essere così ignoranti, di come sia possibile che si sia spezzata così irrimediabilmente la memoria. In realtà il film non rimprovera nulla ai giovani, semmai prende atto di un fatto che, se appare sconcertante a chi giovane non è, è solo a causa della sua prospettiva viziata sulle cose. I figli hanno il diritto di non conoscere le vite dei padri, se gli stessi padri dimenticano pezzi importanti delle loro esistenze, se tradiscono la loro giovinezza per inseguire altre chimere. Veltroni, a mio avviso, con questo film riconosce questo errore, e prova (magari un po’ goffamente, un po’ tardivamente) a rimediare (non per questo dovremo però assolverlo dai suoi errori politici, né mi sembra che ce lo chieda). Se qualcosa vuole fare, dunque, questo film, non è tanto raccontare ai giovani com’era bello il mondo quando c’era Berlinguer, vuole piuttosto ricordare a tutti noi che non si deve dare nulla per scontato, e che se c’è qualcosa di buono nelle nostre storie passate dobbiamo prendercene cura, e raccontarlo: nessun altro lo farà al posto nostro.

(Ho visto il film al Goldoni di Ancona, la sera del 5 aprile 2014)

Italo Calvino, La giornata di uno scrutatore, cap. XII

La scena centrale di La giornata di uno scrutatore si svolge in una camerata del Cottolengo occupata da degenti fra i più gravi, occasionalmente trasformata in “seggio mobile” per le elezioni politiche nelle quali il protagonista del racconto, Amerigo, è scrutatore. Il tema polemico è la deplorevole abitudine di permettere il voto (per tramite delle suore assistenti) a malati chiaramente incapaci di intendere e di volere. Ma alla scena principale Calvino intreccia, in questo XII capitolo, un quadro secondario, che trovo bellissimo e voglio trascrivere.

Un letto alla fine della corsia era vuoto e rifatto; il suo occupante, forse già in convalescenza, era seduto su una seggiola da una parte del letto, vestito d’un pigiama di lana con sopra una giacca, e seduto dall’altra parte del letto era un vecchio col cappello, certamente suo padre, venuto quella domenica in visita. Il figlio era un giovanotto, deficiente, di statura normale ma in qualche modo – pareva – rattrappito nei movimenti. Il padre schiacciava al figlio delle mandorle, e gliele passava attraverso al letto, e il figlio le prendeva e lentamente portava alla bocca. E il padre lo guardava masticare. […]

Amerigo continuava a guardare il padre e il figlio. Il figlio era lungo di membra e di faccia, peloso in viso e attonito, forse mezzo impedito da una paralisi. IL padre era un campagnolo vestito anche lui a festa, e in qualche modo, specie nella lunghezza del viso e delle mani, assomigliava al figlio. Non negli occhi: il figlio aveva l’occhio animale e disarmato, mentre quello del padre era socchiuso e sospettoso, come nei vecchi agricoltori. Erano voltati di sbieco, sulle loro seggiole ai due lati del letto, in modo da guardarsi fissi in viso, e non badavano a niente che era intorno. Amerigo teneva lo sguardo su di loro, forse per riposarsi (o schivarsi) da altre viste, o forse ancor di più, in qualche modo affascinato […]

Interviene nel campo di osservazione di Amerigo una suora, la Madre, che è normalmente adibita al servizio quotidiano nello stanzone, e che sembra tutta compresa nella grazia metafisica della sua vocazione.

Anche la Madre sorrise, ma d’un sorriso che era per tutti e per nulla. Il problema d’esser riconosciuta, pensò Amerigo, per lei non esisteva; e gli venne da confrontare lo sguardo della vecchia suora con quello del contadino venuto a passare la domenica al “Cottolengo” per fissare negli occhi il figlio idiota. Alla Madre non occorreva il riconoscimento dei suoi assistiti, il bene che ritraeva da loro – in cambio del bene che loro dava – era un bene generale, di cui nulla andava perso. Invece il vecchio contadino fissava il figlio negli occhi per farsi riconoscere, per non perderlo, per non perdere quel qualcosa di poco e di male, ma di suo, che era suo figlio. […]

Amerigo torna a pensare alla Madre, e vede nell’amore della Madre per i suoi poveri derelitti qualcosa di simile al suo amore – da comunista – per l’umanità. Si perde in questi pensieri…

Ma più s’ostinava a pensare queste cose, più s’accorgeva che non era tanto questo che gli stava a cuore in quel momento, quanto qualcos’altro per cui non trovava parole. Insomma, alla presenza della vecchia suora si sentiva ancora nell’ambito del suo mondo, confermato nella morale alla quale aveva sempre (sia pur per approssimazione e con sforzo) cercato di modellarsi, ma il pensiero che lo rodeva lì nella corsia era un altro, era ancora la presenza di quel contadino e di suo figlio, che gli indicavano un territorio per lui sconosciuto.

La suora aveva scelto la corsia con un atto di libertà, aveva identificato – respingendo il resto del mondo – tutta se stessa in quella missione o milizia, eppure – anzi: proprio per questo – restava distinta dall’oggetto della sua missione, padrona di sé, felicemente libera. Invece il vecchio contadino non aveva scelto nulla, il legame che lo teneva stretto alla corsia non l’aveva voluto lui, la sua vita era altrove, sulle sue terre, ma faceva alla domenica il viaggio per veder masticare suo figlio.

Ora che il giovane idiota aveva terminato la sua lenta merenda, padre e figlio, seduti sempre ai lati del letto, tenevano tutti e due appoggiate sulle ginocchia le mani pesanti d’ossa e di vene, e le teste chinate per storto – sotto il cappello calato il padre, e il figlio a testa rapata come un coscritto – in modo di continuare a guardarsi con l’angolo dell’occhio.

Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari.

E pensò: ecco, questo modo d’essere è amore.

E poi: l’umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo.

Ecco. Finito. Un Calvino secco, scabro. Un Calvino che pare quasi Fenoglio. Bello, no?

Almeno ardore…

[…]
Tu giovane, in quel maggio in cui l’errore
era ancora vita, in quel maggio italiano
che alla vita aggiungeva almeno ardore,
 
quanto meno sventato e impuramente sano
dei nostri padri – non padre, ma umile
fratello – già con la tua magra mano
 
delineavi l’ideale che illumina
(ma non per noi: tu, morto, e noi
morti ugualmente, con te, nell’umido
 
giardino) questo silenzio. Non puoi,
lo vedi?, che riposare in questo sito
estraneo, ancora confinato. […]

 

 

Nel settantacinquesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci. E anche PPP ci ha lasciato ormai da troppo tempo.

Postilla: leggo ora questa frase postata su facebook da Roberto Saviano: “Volete trovare il fuoco? Ricercatelo nella cenere.” Ne è autore Moshe-Leib di Sasov, che non so chi sia. Ma mi pare che la frase ci stia.