Tre appunti su un bel romanzo

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Ho buttato giù qualche appunto di lettura sull’ultimo romanzo di Romano Luperini, L’ultima sillaba del verso:

1. Le cose ultime

Il titolo del nuovo romanzo di Romano Luperini (L’ultima sillaba del verso, Mondadori 2017) istituisce immediatamente, attraverso la parola ‘ultima’, un dialogo con il lapidario incipit dell’introduzione a Tramonto e resistenza della critica (sempre di Luperini, Quodlibet 2013): “Questa è la mia ultima raccolta di saggi”. E del resto quella introduzione recava un titolo, Per chiudere i conti, altrettanto inequivocabile.

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Questi giorni

 

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Maria Roveran e Marta Gastini in Questi giorni

Domenica 25 settembre, metà pomeriggio. Non è il momento migliore per presentare un film ad Ancona: la gente percepisce che questa è forse l’ultima domenica dell’anno in cui si sente ancora l’odore dell’estate, e passare un pomeriggio al buio di una sala cinematografia a molti non deve essere sembrata una buona idea. Così, ad accogliere il regista che viene a presentare il suo nuovo film, non si può certo dire che ci sia il pubblico delle grandi occasioni.

Però i non molti presenti possono ascoltare un uomo timido, e – sotto la sprezzatura – raffinato, che ti accompagna dentro al film con un discorso semplice e profondo basato su due concetti: uno, che il vero realismo non è provare a fotografare la realtà così come appare, ma coglierne il senso profondo (avrà mica letto Siti, il regista?); due, corollario del primo ragionamento, che il rapporto fra verità e finzione al cinema è rovesciato: la verità puoi coglierla solo portando all’estremo la finzione, la costruzione fittizia. Guai, per un attore e per un regista, provare ad “essere naturale” sulla scena o dietro la cinepresa. Continua a leggere

Julieta

Un po’ di tempo fa ho visto Julieta, un film di Pedro Almodovar tratto da un bel libro di Alice Munro, che in italiano si intitola In fuga. Un film, secondo me, che regala alcune scene davvero belle (quella dell’accappatoio, in cui si gestisce magistralmente il sempre difficile passaggio di consegne fra l’attore che interpreta il personaggio giovane e quello che lo interpreta anziano) e soprattutto con uno sguardo sull’umanità consolante ma non consolatorio.

Riflettevo, uscito dal cinema, su quanto sarebbe bello che più spesso nella vita si incontrassero persone simili a tanti dei personaggi di questo film: capaci di volere bene, di perdonare, di non diventare ciechi per gelosia e desiderio di possesso; e persone che sappiano anche accettare negli altri scelte diverse, diversi modi di amare.

I melodrammi di Almodovar sono sempre un inno alla comprensione e all’accettazione, dell’altro e della vita. Purtroppo, con tutta evidenza, c’è in giro un sacco di gente che non guarda i film di Almodovar.

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Mon oncle

Per fortuna, mi dico a volte, che ho una cultura molto limitata, e delle lacune totali su alcune espressioni artistiche, momenti e personaggi fondamentali. Questo mi permette, sulla soglia dei quarantaquattro anni, di vivere esperienze estetiche completamente nuove e totalizzanti come si mi affacciassi al mondo (o almeno a quel singolo pezzo di mondo che è l’espressione artistica in questione) per la prima volta.

Per esempio, in vita mia non avevo mai visto un film di Jacques Tati, e l’altra sera sono finito quasi per caso a vedere Mon oncle, film girato da Tati nel 1958, nella mia sala cinematografica preferita (per la cronaca: il Cinema Azzurro di Ancona): una festa dell’intelligenza, dell’ironia e della bellezza, questo mi è sembrato Mon oncle. Evviva l’ignoranza, dunque, che rende possibili le feste.

Qui sotto, la scena che più mi ha incantato:

L’uomo del futuro

Qui sotto i primi paragrafi della mia nota Un principio di umanità: don Milani in L’uomo del futuro di Eraldo Affinati, pubblicata su laletteraturaenoi il 16 maggio scorso.

***

Nel suo ultimo libro (L’uomo del futuro, Mondadori 2016) Eraldo Affinati fa i conti con una figura affascinante e ingombrante, in ogni caso ineludibile, quella del prete ed educatore Lorenzo Milani, e lo fa nella maniera a cui la sua scrittura ci ha abituato, ovvero con un corpo a corpo che è sempre, insieme, una lotta e un abbraccio. Continua a leggere

La vita in tempo di pace

Ho letto La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, e l’ho fatto – come mi capita per quasi tutti i libri che leggo – fuori sincrono, quando ormai non ne parla più nessuno o quasi. Forse dovrei creare una apposita rubrica del blog intitolata dopo de àmmene, non so.

La vita in tempo di pace, dunque: l’ingegner Ivo Brandani, quasi settant’anni, si sta per imbarcare da Sharm verso Roma, verso casa, dove non arriverà: si sentirà male durante il volo, a causa di una infezione rara e fatale, un’ameba che ti mangia il cervello, contratta in Africa. Il romanzo è la registrazione del flusso di coscienza del protagonista nell’attesa del volo e durante lo stesso, alternata al racconto a ritroso di sette momenti chiave della vita di Brandani. I capitoli dedicati al giorno fatale, se letti di seguito, sarebbero già da soli un romanzo, dallo stile solido e compatto. I capitoli retrospettivi, invece, potrebbero essere ciascuno il racconto esemplare di un autore diverso. Non è difficile vedere in controluce il modello di Se una notte d’inverno un viaggiatore.

Dentro questo schema, il flusso di pensieri, i casi della vita di un uomo nato appena finita la guerra, testimone-protagonista del progressivo esaurirsi della spinta storica della ricostruzione, destinato a vivere solo delle sue idiosincrasie e dei mille inutili conflitti quotidiani senza prospettiva propri di un’epoca che ha abolito i grandi conflitti epocali, del tempo di pace (“adesso la vicinanza, la solidarietà provata un tempo per i compagni del movimento, era scomparsa. Al suo posto c’era il tutti-contro-tutti della vita in Tempo di Pace”, p. 375).

Il romanzo di uno Sconfitto-Per-Assenza-Di-Guerre, insomma: uno che avrebbe voluto combattere e costruire ponti, e che invece ha girato a vuoto ed è finito a progettare barriere coralline farlocche ricostruire in fabbriche orientali.

Un romanzo pieno di intuizioni, portatore di una visione del mondo sofferta e coerente, e scritto con innegabile – a volte impressionante – talento. E con un protagonista indimenticabile. Però un romanzo forse troppo lungo, anche ripetitivo, forse perché  probabilmente voleva proprio trasmettere il senso di noia e inutilità della vita in tempo di pace. Va bene, però arrivi verso la fine del libro pensando che – se un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire – questo forse un classico non è, perché pare che abbia finito di dirti quello che aveva da dire anche prima che tu abbia finito di leggerlo.

Poi però, per contrappasso, proprio alla fine di questo libro fluviale, ti arriva un epilogo brevissimo (tre pagine) e folgorante. E ti devi per forza ricredere.

Un bacio

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Domenica scorsa, 3 aprile, allo spettacolo dell’ora di cena, in una grandissima e semivuota sala del Goldoni abbiamo visto questo film italiano che ci è piaciuto molto: Un bacio, di Ivan Cotroneo (primo film che mi capitava di vedere di questo regista).

E’ la storia di tre ragazzi di sedici anni, tutti e tre emarginati: Lorenzo, un vulcanico, vitalissimo omosessuale orfano e appena adottato dopo mille peregrinazioni; Blu, una ragazza bella, sensibile e musona che è da tutti additata come la troia; Antonio, un ragazzo timido, bravo solo a pallacanestro, bocciato, traumatizzato dalla perdita dell’amatissimo fratello in un incidente stradale.

Fra i tre nasce una strana e intensissima amicizia fra sfigati, commovente nei momenti più solari, incasinati e felici, ma destinata a complicarsi terribilmente.

Gli attori protagonisti sono magnifici, soprattutto l’esordiente interprete di Lorenzo, Rimau Grillo Ritzberger. Il regista molto bravo a tenere il ritmo e soprattutto consapevole di quel che sta costruendo, facendo reagire Fate ignoranti Jules et JimMilk e… Mika!

Del suo approccio mi sono piaciute soprattutto due cose: la prima è che prova a trattare con rispetto e amore il mondo adolescenziale, senza sopraccigli inarcati e senza moralismi: avere sedici anni è complicato, e se sei un frocio, una puttana, un deficiente lo è molto di più, ma in ogni caso se hai sedici anni non sei un bambino e non vai trattato come un bambino: Cotroneo non lo fa: sta dalla loro parte; loro – ci ricorda – sono il futuro, e quindi non stiamo qui tanto a menarcela, noi adulti, per favore, con i nostri “ai miei tempi”!

Seconda cosa: trattando argomenti come omofobia e bullismo, l’autore sa benissimo che la strada verso la loro sconfitta è lunga e tortuosa; e non siamo vicini al traguardo, nemmeno un po’. E sa che una certa maggiore libertà di esprimere il proprio essere, oggi presente almeno in alcuni ambienti, non è un traguardo raggiunto, ma un punto di partenza, perché questa espressione libera di sé resta – per chi la esercita, come Lorenzo nel film – piena di rischi; il primo: quello di una reazione violenta di chi non ha gli strumenti psicologici e culturali per accettare davvero una diversità non più nascosta, segregata, rimossa. Questo è il punto in cui siamo e che il film fotografa (anche allo scopo di promuovere presso il pubblico giovanile la consapevolezza della necessità di ulteriori passi). Per questo motivo Un bacio, quasi in contraddizione con la scelta di un linguaggio apparentemente leggero, da commedia, non è per niente consolatorio, e ci sbatte in faccia senza pietà la durezza del mondo.

Un film da vedere, dunque, e che spero davvero tanto piaccia non solo agli adulti, ma anche agli adolescenti che lo andranno a vedere.

***

Uscendo dal cinema ho ripensato ad A., un mio alunno di tanti anni fa, che somigliava in tante cose a Lorenzo: come Lorenzo si vestiva e parlava in maniera strana, e gli piaceva ballare, magari sui banchi se ce n’era l’occasione. Non lo vedo da tantissimi anni, forse dalla sera che ci siamo salutati – un po’ teatralmente: lui era così – alla fine della terza media. Ma so che ha la sua vita, che è diventato un artista, e parla pubblicamente della sua omosessualità. Ogni tanto vedo le sue foto su internet, su facebook: è bello, quasi sempre sorridente, sembra felice. Ma so che niente è mai facile, per chi come lui e come Lorenzo vuole vivere la sua vita a modo suo, senza paura. Auguri, dunque, a tutti gli A. e a tutti i Lorenzo.

Brooklyn

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Il 27 marzo, giorno di Pasqua, in un cinema parrocchiale semivuoto di Ancona, allo spettacolo del tardo pomeriggio, abbiamo visto Brooklyn, un film di cui non sapevo nulla a parte quello che si poteva desumere dalla locandina: tre candidature all’Oscar (film, sceneggiatura, attrice protagonista) nessuna andata a buon fine, sceneggiatura di Nick Hornby, ambientazione d’epoca (una parte certamente a New York), e niente altro.

E’ stata una bella sorpresa, un film inatteso per la sua delicatezza, compostezza e – mi verrebbe da dire – classicità. Per come rinuncia a vezzi e colpi di scena inutili concentrandosi sul nocciolo della questione (una giovane donna di fronte a normalissime ma decisive scelte di vita); e per come riesce a farlo senza annoiare, anzi.

Bravissima la protagonista. Attento e onesto ma niente di più il regista. Quel satanasso di Nick Hornby ci mette molto del suo costruendo una sceneggiatura praticamente perfetta.

Per chi ha tempo, vale la pena di leggere leonardo, che come spesso gli capita coglie il punto. Locatelli un po’ più freddino.

Spotlight

Dovevamo andare a vedere Jeeg Robot con gli amici, ma poi un piccoletto si è ammalato e tutta la faccenda è saltata. Quindi si è pensato a Room ma poi magari ci incupiva tutto il weekend e non ce la siamo sentita. Allora andiamo a vedere Spotlight (scusate se non lo cito con il titolo italiano, ma a me pare sbagliato, e comunque brutto): non proprio una prima scelta insomma.

spotlight-filmIl film però è bello, bello, bello. Per un sacco di motivi e ne dirò soltanto alcuni in ordine sparso. E’ bello perché racconta una storia di soprusi terribili (narra, si sa, di preti pedofili – tanti preti pedofili –  nella Boston fra fine XX e inizio XXI secolo), ma senza mai una scena ad effetto, con scelte controllatissime di regia: l’orrore solo raccontato, con poche lacrime, da personaggi non necessariamente simpatici.

Il fatto però è che, in realtà, non è un film sui preti pedofili, questo, ma soprattutto un film sul lavoro: la storia di un gruppo di quattro giornalisti che fa bene il suo mestiere, ci crede, si prende il tempo che serve, lavora veramente di squadra (col capo che fa il capo ma quando serve si spulcia come tutti gli annuari della diocesi, il lavoro più umile e palloso), non scende a nessun compromesso, e ti fa davvero sentire quanto può essere sensato e gratificante lavorare ad una cosa importante, con persone di cui ti puoi fidare ciecamente, in un ambiente che ti sostiene e crede in te anche quando fai le scelte più difficili (E dici: “Wow”. Sì: “Wow, l’avessi visto a vent’anni questo film mi avrebbe cambiato la vita. Mi avrebbe convinto a fare il giornalista d’inchiesta.” Poi però ti fermi un attimo e pensi che forse, in Italia, te l’avrebbe rovinata, la vita, questo film, ecco).

E poi è bello anche per un altro motivo: descrive benissimo i meccanismi (sociali, psicologici, giuridici) senza essere troppo didascalico. Un esempio: come fa emergere la responsabilità collettiva di tutta la perbenista Boston per quello che è successo: l’omertà, le pressioni, le connivenze, i profitti…

E poi va detto, per finire, che è recitato benissimo, soprattutto da quattro attori: Michael Keaton, screen20shot202015-11-2120at202-32-0420pmMark Ruffalo, Rachel McAdams, Liev Schreiber. A me ha colpito soprattutto quest’ultimo, che ha una parte apparentemente minore ma decisiva, recitata sottotono e intensissima, quella del nuovo direttore del Globe, che viene da fuori, è ebreo, non ha famiglia, parla pochissimo, sta al lavoro fino a tardi, anche la domenica, e quando è in procinto di pubblicare un’inchiesta di portata storica, su cui il suo staff lavorava da anni, lui sta lì a spulciare quali aggettivi inutili si possono togliere. Il vero motore di tutto il film, questo direttore, l’outsider necessario perché – in un contesto socialmente e culturalmente chiuso – possa avvenire una rivoluzione.

E se questa non vi basta, e avete molto altro tempo da passare a leggere impressioni su questo film, c’è anche Leonardo (che da 15 anni scrive, scrive tanto, scrive sempre di più, ma questo è un altro discorso…).

Update 9/3/2016 – Segnalo una recensione di segno opposto alla mia, che giudica negativamente il film proprio perché parte dall’idea che sia solo e soltanto un film sui preti pedofi

 

La rancura

Questa mia nota sull’ultimo romanzo di Romano Luperini, scritta per il blog letterario LN – La letteratura e noi, mi pare l’occasione giusta per aprire una nuova, come sempre precaria, stagione di tuttequestecose.

 

71L5zB1wP3LSu La rancura di Romano Luperini

Nel 1998, Ernesto Sabato aveva ottantasette anni e, dando alle stampe Antes del fin, uno scritto autobiografico che era anche il bilancio di una lunga vita, avvertiva i suoi lettori con queste parole:

no esperen encontrar en este libro mis verdades más atroces; únicamente las encontrarán en mis ficciones, en esos bailes siniestros de enmascarados que, por eso, dicen o revelan verdades que no se animarían a confesar a cara descubierta [1]

Solo la finzione, luogo di balli in maschera, consente dunque di rivelare le verità più atroci che si nascondono in fondo all’animo di un uomo: a questa conclusione era giunto, prima della fine, l’autore del cupo e tenebroso Sobre héroes y tumbas – uno dei romanzi fondamentali del Novecento – che pure da decenni aveva smesso di scrivere ficciones per dedicarsi all’impegno civile e alla scrittura saggistica.

Mi piace partire da qui per svolgere qualche riflessione sul romanzo La rancura di Romano Luperini (Mondadori, 2016), non la prima ma certamente la più complessa e ambiziosa prova narrativa di uno “scrittore avventizio”, se vogliamo stare alla definizione che l’autore dà di sé. Romanzo che deriva da un percorso per certi versi opposto rispetto a quello di Sabato, perché Luperini, dopo una vita dedicata alla critica letteraria accademica e militante, alla scrittura saggistica e all’impegno politico, sente l’urgenza di scrivere un romanzo; opposto, ma figlio dello stesso nodo: la complementarietà irriducibile di realtà e finzione, saggio e racconto, vita e narrazione della vita.

Romanzo complesso, si diceva, La rancura, e non soltanto perché composto da tre parti programmaticamente e strutturalmente diverse – Memoriale sul padre (1935-1945), Il figlio (1945-1982), Il figlio del figlio (2005) –  ma soprattutto perché ha l’ambizione di svolgere un discorso che riguardi almeno tre livelli differenti: quello psicologico ed esistenziale, legato all’archetipico conflitto fra padri e figli, nonché al ruolo che tale conflitto svolge nel tentativo proprio di ogni uomo di trovare il suo posto nel mondo; quello storico-politico, con il padre partigiano in Istria, il figlio intellettuale militante nella stagione del Sessantotto e dei movimenti, il figlio del figlio ospite disilluso dell’Italia berlusconiana; e infine quello propriamente letterario, dal momento che La rancura è anche, e forse soprattutto, un’indagine sul rapporto fra letteratura e realtà, sulle possibilità e sul senso del narrare nell’attuale situazione storico-culturale.

Non voglio, con questo, ridurre l’opera di Luperini ad una sorta di saggio di teoria della letteratura en travesti: sarebbe ingiusto, e sarebbe soprattutto sbagliato. Credo però che questo elemento sia decisivo e accresca, complichi e in fondo giustifichi sia la componente psicologica sia quella storica, che sono la materia prima del racconto.

Per provare a chiarire, ripercorro brevemente il romanzo, ponendo in evidenza i dati strutturali. La prima sezione si presenta come un memoriale sulla vita di Luigi Lupi – figlio di contadini toscani che diventa maestro elementare sotto il fascismo e poi partigiano – scritto (come si scoprirà alla fine della seconda parte) dal figlio Valerio dopo la morte del padre, sulla base di un preciso lascito testamentario: anche se il lettore, mentre lo legge, non lo sa, il memoriale è dunque un tentativo di riconciliazione con il padre morto di un intellettuale in crisi, e questo spiega il tono epico di alcune scene, così come la complessiva  sensazione di stare dentro un racconto canonico di una pagina di storia d’Italia già mille volte raccontata, con la quale già mille volte s’è provato a fare i conti senza ancora averli chiusi del tutto.

La seconda sezione del libro, Il figlio, è quella che – ad una prima impressione – può sembrare più vicina all’autobiografia: si presenta come la narrazione in prima persona di due momenti della vita di Valerio Lupi, la prima giovinezza e poi la maturità, fin verso i quaranta anni. Valerio Lupi è prima studente e poi docente universitario, coinvolto nel Sessantotto e leader politico di estrema sinistra: è insomma, a tutti gli effetti, un alter ego dell’autore, per quanto non si possa mai postulare una identificazione perfetta fra scrittore e personaggio (si veda, sul punto, la discussione fra Angelo Guglielmi e lo stesso Luperini).

La terza parte, la più complessa e probabilmente la più originale – certamente quella decisiva per la comprensione del libro – è impiantata sul racconto in terza persona di alcune settimane della vita di Marcello, figlio di Valerio (Il figlio del figlio del titolo della sezione), che nel 2005 torna da Londra nella casa toscana del padre, morto qualche tempo prima, per cercare di scrivere il suo secondo libro e intanto provare a vendere la casa. È in questo momento che veniamo a sapere come è nato il Memoriale, e anche da dove vengono le scritture autobiografiche della seconda parte: Marcello e Serena, la sorellastra, trovano infatti fra le carte del padre un plico con su scritto “Da aprire dopo la mia morte”:

Dentro la busta due fasci di fogli, una cronaca autobiografica del periodo compreso fra l’immediato dopoguerra e gli anni di piombo e un memoriale (Memoriale del padre, è il titolo) contenente una ricostruzione della giovinezza del nonno negli anni del fascismo e della guerra partigiana; e poi lettere, foto, fotocopie di documenti storici e di capitoli di saggi sulla Resistenza in Istria. Nessuna nota di accompagnamento, ma una dedica: “Ai miei figli”.

Ecco dunque spiegata (ma siamo ormai a dieci pagine dalla fine) la struttura a scatole cinesi del libro. Una struttura che, retrospettivamente, rende ragione delle scelte stilistiche e tematiche messe in campo nelle prime due sezioni: il racconto della Resistenza in chiave epica, che rimanda soprattutto a Fenoglio, il resoconto dei tormenti di Valerio, che fa pensare in primo luogo a Tozzi e a Pratolini, le vicende dell’intellettuale nel vortice del Sessantotto e delle sue derive armate, tutto si giustifica perfettamente dentro questa cornice: sono il referto, il bilancio di vita di un uomo che non c’è più.

Da questa scelta narrativa decisiva (far scomparire l’alter ego dell’autore), da questa frattura, discende la cifra caratteristica dell’ultima parte del libro, che appare tutta orientata ad una programmatica e sistematica presa di distanza dalla materia narrata. Qui, infatti, non solo opera una narrazione in terza persona fredda e oggettivante, ma si moltiplicano i filtri volti ad allontanare (si vorrebbe dire anestetizzare) le pagine più ricche di pathos e emozioni: ecco allora, ad esempio, che per raccontare l’ultimo senile amore di Valerio è ampiamente riutilizzato (e decostruito dallo sguardo smitizzante di Marcello) il materiale incandescente e davvero patetico di un “quaderno giallo americano” che era stato alla base di un altro libro di Luperini, L’età estrema (Sellerio, 2008); oppure ecco che, in un altro capitolo, persino l’autentico testamento politico di Valerio – una commovente lettera su cosa per lui avesse significato essere comunista – viene offerto al lettore attraverso una scena in cui tutto concorre a smontare ogni possibile forma di retorica e di coinvolgimento.

Questa dislocazione dello sguardo in una dimensione postuma permette all’autore di riconsiderare tutto quello che ci ha raccontato fino a quel momento, ovvero la sua stessa vita di uomo e di intellettuale, come se non fosse la sua (e, in effetti, a questo punto sua non lo è più davvero, ma solo del suo personaggio). Questa presa di distanza è preparata dalle riflessioni esistenziali (improntate ad un materialismo leopardiano mediato forse dal magistero di Sebastiano Timpanaro) delle ultime bellissime pagine della sezione Il figlio, ma diventa operante proprio quando Valerio esce di scena. È allora che chi scrive sembra riuscire a guardare alla sua esperienza passata da una distanza siderale, con una prospettiva nuova, più lucida, spietata e anche spudorata verso il sé stesso che fu, senza più rancori ma senza nemmeno espliciti intenti pedagogici; è allora che l’autore riesce a fare della sua esperienza, che è l’esperienza di una sconfitta storica, l’emblema di una universale condizione umana di fragilità e solitudine che solo il quotidiano lavoro, la faticosa costruzione di una personalità e di un carattere (si veda, in questo senso, il dialogo fra Marcello e la sorellastra Serena a p. 301), può riscattare dal caos e dall’insensatezza.

Certo, tutto questo potrebbe deludere il lettore che cercasse il racconto celebrativo e autoassolutorio di una parabola storica, quella che dalle speranze deluse della Resistenza passasse per le contraddizioni del Sessantotto fino alla débacle politica e morale dell’Italia berlusconiana (e post); o quello che, conoscendo la statura intellettuale e critica dell’autore, chiedesse al libro di Luperini una precisa indicazione sulla strada da seguire nel suo impegno civile e culturale. Nel romanzo non c’è niente di tutto questo: non la voce di un padre autorevole, di un maestro senza tentennamenti, ma quella di un figlio fragile, di un intellettuale a volte spaesato, dispatriato, di uno scrittore che fa i conti con le sue verdades más atroces.

E’ questo, a mio avviso, l’ultimo e più grande dono de La rancura, quello di sfidare la nostra pigrizia sempre in cerca di orme facili da seguire; il dono, in una parola, di lasciarci soli.

 

Nota:

[1] “non sperino di incontrare in questo libro le mie verità più atroci; quelle le troveranno soltanto nei mei romanzi, in quei sinistri balli in maschera che, proprio per questo, dicono o rivelano verità che non si avrebbe il coraggio di confessare a viso scoperto” (traduzione mia)