Spotlight

Dovevamo andare a vedere Jeeg Robot con gli amici, ma poi un piccoletto si è ammalato e tutta la faccenda è saltata. Quindi si è pensato a Room ma poi magari ci incupiva tutto il weekend e non ce la siamo sentita. Allora andiamo a vedere Spotlight (scusate se non lo cito con il titolo italiano, ma a me pare sbagliato, e comunque brutto): non proprio una prima scelta insomma.

spotlight-filmIl film però è bello, bello, bello. Per un sacco di motivi e ne dirò soltanto alcuni in ordine sparso. E’ bello perché racconta una storia di soprusi terribili (narra, si sa, di preti pedofili – tanti preti pedofili –  nella Boston fra fine XX e inizio XXI secolo), ma senza mai una scena ad effetto, con scelte controllatissime di regia: l’orrore solo raccontato, con poche lacrime, da personaggi non necessariamente simpatici.

Il fatto però è che, in realtà, non è un film sui preti pedofili, questo, ma soprattutto un film sul lavoro: la storia di un gruppo di quattro giornalisti che fa bene il suo mestiere, ci crede, si prende il tempo che serve, lavora veramente di squadra (col capo che fa il capo ma quando serve si spulcia come tutti gli annuari della diocesi, il lavoro più umile e palloso), non scende a nessun compromesso, e ti fa davvero sentire quanto può essere sensato e gratificante lavorare ad una cosa importante, con persone di cui ti puoi fidare ciecamente, in un ambiente che ti sostiene e crede in te anche quando fai le scelte più difficili (E dici: “Wow”. Sì: “Wow, l’avessi visto a vent’anni questo film mi avrebbe cambiato la vita. Mi avrebbe convinto a fare il giornalista d’inchiesta.” Poi però ti fermi un attimo e pensi che forse, in Italia, te l’avrebbe rovinata, la vita, questo film, ecco).

E poi è bello anche per un altro motivo: descrive benissimo i meccanismi (sociali, psicologici, giuridici) senza essere troppo didascalico. Un esempio: come fa emergere la responsabilità collettiva di tutta la perbenista Boston per quello che è successo: l’omertà, le pressioni, le connivenze, i profitti…

E poi va detto, per finire, che è recitato benissimo, soprattutto da quattro attori: Michael Keaton, screen20shot202015-11-2120at202-32-0420pmMark Ruffalo, Rachel McAdams, Liev Schreiber. A me ha colpito soprattutto quest’ultimo, che ha una parte apparentemente minore ma decisiva, recitata sottotono e intensissima, quella del nuovo direttore del Globe, che viene da fuori, è ebreo, non ha famiglia, parla pochissimo, sta al lavoro fino a tardi, anche la domenica, e quando è in procinto di pubblicare un’inchiesta di portata storica, su cui il suo staff lavorava da anni, lui sta lì a spulciare quali aggettivi inutili si possono togliere. Il vero motore di tutto il film, questo direttore, l’outsider necessario perché – in un contesto socialmente e culturalmente chiuso – possa avvenire una rivoluzione.

E se questa non vi basta, e avete molto altro tempo da passare a leggere impressioni su questo film, c’è anche Leonardo (che da 15 anni scrive, scrive tanto, scrive sempre di più, ma questo è un altro discorso…).

Update 9/3/2016 – Segnalo una recensione di segno opposto alla mia, che giudica negativamente il film proprio perché parte dall’idea che sia solo e soltanto un film sui preti pedofi

 

Senza risposte

C’era un tempo in cui non capivo proprio niente, e quando avevo a che fare con roba a vario titolo legata alla cultura ci cercavo le risposte. Poi per fortuna ho capito che le risposte stanno a pagina 46 della settimana enigmistica e che nei libri e nei film al massimo potevo cercare buone domande. Però le risposte continuavo a cercarle, forse un po’ più appropriatamente, nei giornali, nei buoni giornali. Ora nemmeno quello. Sempre più mi accorgo che l’unica cosa che mi interessa sono le storie delle persone, e più di queste persone vengono messe in luce le incertezze, i dubbi di fronte ad una scelta, più mi pare che queste storie abbiano per me un senso.

Per questo qualche sera sera fa mi è piaciuto vedere l’ambiguo melodramma di François Ozon; per questo la settimana scorsa mi sono sentito di scrivere un post di elogio per un’intervista problematica e per niente banale ad una donna che aveva deciso di aiutare due gay ad avere dei figli (erano i giorni di Dolce e Gabbana, fra l’altro…); per questo sono rimasto molto colpito per un articolo letto su Internazionale che racconta la vicenda di Willie Parker, l’unico medico che – in un contesto fortemente ostile – pratica l’aborto nello stato del Mississippi. Parker è un medico nato da una madre sola e povera, ultimo di cinque figli, diventato medico solo grazie alla sua bravura e alle borse di studio, cresciuto in un contesto fortemente religioso e che da giovane è stato un ginecologo antiabortista, finché un suo collega e amico che praticava aborti non è stato ucciso di un fondamentalista cristiano, in chiesa, con un colpo di pistola alla testa. Da quel momento quest’uomo ha messo radicalmente in discussione i suoi convincimenti, e dopo molte complicate riflessioni ha deciso di dare una mano ad abortire alle donne del Mississippi, quasi tutte nere come lui, che senza di lui non avrebbero grandi alternative alla trementina, all’acido sturalavandini o al buttarsi dalle scale. L’articolo racconta benissimo non solo i rischi che Parker corre (e il contesto terribile della bible belt, un scenario al quale rischiamo di avvicinarci anche noi…), ma anche i dubbi, i momenti tragici, il dolore e la fatica. Ma – soprattutto – i dubbi. E non dà risposte.

L’articolo di Claas Relotius che racconta la storia di Willie Parker, originariamente apparso su Der Spiegel, si legge in italiano nel numero 1095 di Internazionale. In rete può essere al momento reperito in questa rassegna stampa: vale la pena di leggerlo fino all’ultima riga.

PS: Naturalmente con trenta secondi di ricerca su google si trova il periodico cattolico che assimila Willie Parker a “Heichmann” (con l’acca, ovvio). Ma  di gente piena zeppa di risposte ce n’è sempre stata tanta, troppa, in questo mondo.

Un ragno nell’orecchio

Oggi, durante un pic nic ai Piani di Ragnolo, mi è entrata nell’orecchio questa simpatica bestiolina:

Vivrò i prossimi giorni nel dubbio che nel condotto uditivo mi stiano covando tanti piccoli aracnidi. E questo non è bello, anche perché poi uno fa le ricerche in internet e c’è sempre un articolo di Elmar Burchia, che è Elmar Burchia e va bene, però intanto l’articolo l’hai letto e ti rovina la serata (e ti dici: “maledetto Elmar, non potevi occuparti di roba come cane che assomiglia a Putin? quella è una notizia per te, diamine!). E intanto cominci a sentire uno strano prurito nel padiglione destro…

…e anche qualcosa che sembra muoversi, ogni tanto…

…ma non è niente…

…no, non è niente, dai, è solo suggestione…

…maledetto Elmar Burchia!

…non è niente.

…tranquillo.

(Dopo quattro mesi, l’unico modo per riuscire a ricominciare era scrivere una cazzata. Eccola, scusate. Magari però scelgo l’Eresus Cinnaberinus come emblema di questa nuova stagione del blog; chissà…).

…?

Solo suggestione, dai!

Elmar Burchia maledetto!