Appunti per un documentario antropologico su Loreto

(un post vecchio di qualche anno, rimasto a lungo fra le bozze per un motivo che non ricordo più, ma ora mi va di tirarlo fuori…)

Domenica scorsa sono stato a Loreto, ho assistito ad una messa, resa solenne da cori internazionali e bravi musicisti locali; celebrava un vescovo. Io a Loreto ci andavo da piccolo, e ero contento perché di solito alla fine del giro in Santa Casa i miei si fermavano in un negozio di giocattoli più fornito della media. In ogni caso, è un luogo della mia infanzia, e della mia vita. Credo che con un po’ di pazienza potrei ricostruire il mio percorso nella religione cattolica (scoperta, fascinazione, adesione incondizionata, inquietudine, dubbi, rifiuto, ancora dubbi, sereno distacco, sempre più dubbi, sguardo razionale, dubbi definitivi, rassegnazione, dubbi insormontabili, consapevolezza, dubbi, libertà, dubbi, irritazione, dubbi, denuncia, dubbi, ancora distacco e libertà… ad libitum) ricostruendo i miei passaggi, da solo o variamente accompagnato, nella casetta della Madonna Nera di Loreto.

Ieri, comunque, ci sono tornato dopo veramente tanto tempo, e non so perché proprio ieri avevo lo sguardo dell’antropologo, almeno per come posso immaginarmelo io, che antropologo non sono. Io me lo figuro così: un terzo distanza, un terzo curiosità, un terzo spirito critico, e un pizzico di simpatia istintiva. Ne sono venute fuori alcune osservazioni:

1) La stampella messa di traverso a tenere occupati in prima fila.

2) La monaca che invita “chi è uso a prendere l’ostia sulla mano a metterla in bocca alla presenza dell’officiante” (contro eventuali satanisti?).

3) L’impressionante sequenza di cassette per le offerte in prossimità e dentro la Casa della Madonna Nera: all’ingresso, a ciascuna delle uscite, dove la gente sta ferma in preghiera. Ma soprattutto (il particolare mi ha colpito tantissimo) nello spazio sottostante la Madonna Nera: se si pensa a quello spazio come ad una piccola chiesa (e tutti gli elementi strutturali spingono a questo: la posizione della Madonna, la grata, la forma complessiva dell’edificio…), lo spazio sotto la Madonna è quello destinato all’altare, ovvero il luogo del sacrificio eucaristico, e in effetti ogni cappellina, anche la più piccola, lì c’è un altare – in questo caso no: in questo caso lì c’è una grande fessura per le offerte dei fedeli. Poi si esce, e un apposito addetto (un frate) si occupa – a pagamento, mi par di capire – della benedizione degli oggetti sacri. (Pensare, in questi momenti, a Lutero; o a Pietro Giordani, come ad esempio in una delle più belle scene de Il giovane favoloso).

4) La giovane rannicchiata in un angolo di quella cappellina, in sincera e commossa (e commovente) contemplazione.

5) Il vescovo che alla fine della messa, dopo aver salutato gli ospiti stranieri, rivolge un pensiero agli industriali riuniti per la “Pasqua degli imprenditori” [sic!], e nomina con deferenza il più importante di loro (lui si schernisce). Alla fine tutti a salutarlo e omaggiarlo, in una lunga fila. Come un signore feudale.

6) I pagamenti in contanti, e senza ricevuta, ai collaboratori, direttamente con le banconote di piccolo taglio delle offerte dei fedeli.

7) L’indiano che cerca di convincere i due turisti in divisa da motociclista che i suoi occhiali sono fatti in Italia, “no roba cinese”.

8) La messa per i giovani che si preparano al matrimonio, la ragazza che si stringe al ragazzo nel momento in cui il celebrante parla di progetti per la vita e amore puro. Io mi sento un intruso, e mi vergogno un po’ quando mi trovo a pensare che quella povera ragazza la stanno illudendo. E che per quel prete sono solo parole mentre per lei è carne e vita vera.

9) La gente in fila a fare la comunione. Persone che non ci pensano e stanno lì a ripetere un rito antichissimo, antropofago: mangiare il tuo Dio o il tuo nemico perché ti dia la forza. Non ci si pensa, ma è una roba primitiva, o meglio: primordiale. A me, 226 anni dopo la rivoluzione francese, fa quasi paura. Ma mi affascina, anche.

10) Il maxischermo che rimanda i due giovani frati barbuti (esteticamente non così diversi da rivoluzionari cubani, o hipsters, o fondamentalisti islamici) che portano il candeliere con aria svogliata.

Eccetera.

Senza risposte

C’era un tempo in cui non capivo proprio niente, e quando avevo a che fare con roba a vario titolo legata alla cultura ci cercavo le risposte. Poi per fortuna ho capito che le risposte stanno a pagina 46 della settimana enigmistica e che nei libri e nei film al massimo potevo cercare buone domande. Però le risposte continuavo a cercarle, forse un po’ più appropriatamente, nei giornali, nei buoni giornali. Ora nemmeno quello. Sempre più mi accorgo che l’unica cosa che mi interessa sono le storie delle persone, e più di queste persone vengono messe in luce le incertezze, i dubbi di fronte ad una scelta, più mi pare che queste storie abbiano per me un senso.

Per questo qualche sera sera fa mi è piaciuto vedere l’ambiguo melodramma di François Ozon; per questo la settimana scorsa mi sono sentito di scrivere un post di elogio per un’intervista problematica e per niente banale ad una donna che aveva deciso di aiutare due gay ad avere dei figli (erano i giorni di Dolce e Gabbana, fra l’altro…); per questo sono rimasto molto colpito per un articolo letto su Internazionale che racconta la vicenda di Willie Parker, l’unico medico che – in un contesto fortemente ostile – pratica l’aborto nello stato del Mississippi. Parker è un medico nato da una madre sola e povera, ultimo di cinque figli, diventato medico solo grazie alla sua bravura e alle borse di studio, cresciuto in un contesto fortemente religioso e che da giovane è stato un ginecologo antiabortista, finché un suo collega e amico che praticava aborti non è stato ucciso di un fondamentalista cristiano, in chiesa, con un colpo di pistola alla testa. Da quel momento quest’uomo ha messo radicalmente in discussione i suoi convincimenti, e dopo molte complicate riflessioni ha deciso di dare una mano ad abortire alle donne del Mississippi, quasi tutte nere come lui, che senza di lui non avrebbero grandi alternative alla trementina, all’acido sturalavandini o al buttarsi dalle scale. L’articolo racconta benissimo non solo i rischi che Parker corre (e il contesto terribile della bible belt, un scenario al quale rischiamo di avvicinarci anche noi…), ma anche i dubbi, i momenti tragici, il dolore e la fatica. Ma – soprattutto – i dubbi. E non dà risposte.

L’articolo di Claas Relotius che racconta la storia di Willie Parker, originariamente apparso su Der Spiegel, si legge in italiano nel numero 1095 di Internazionale. In rete può essere al momento reperito in questa rassegna stampa: vale la pena di leggerlo fino all’ultima riga.

PS: Naturalmente con trenta secondi di ricerca su google si trova il periodico cattolico che assimila Willie Parker a “Heichmann” (con l’acca, ovvio). Ma  di gente piena zeppa di risposte ce n’è sempre stata tanta, troppa, in questo mondo.

Spigolature ratzingeriane

Una cosa seria e due tre no a margine della notizia (che definire storica è poco) del giorno.

La cosa seria: sono stato molto colpito dal gesto, oggettivamente tragico, anche perché la particolare condizione di un Papa costringe a prendere una decisione del genere in una perfetta (se guardiamo alla sola dimensione terrena) solitudine. Certo: mi rendo bene conto di quanto per il diretto interessato quella solitudine sia ben altrimenti ricca e piena: ma questo non diminuisce, anzi amplifica forse, la tragica grandezza di un gesto del genere. Colpisce anche la specularità di questa scelta rispetto al modo in cui ha affrontato la fine del suo pontificato il predecessore di Benedetto XVI, Giovanni Paolo II: questo ha mostrato la sua fragilità nella perseveranza, quello nella rinuncia. In ogni modo due approcci alla “fine” che fanno riflettere anche uno come me, così abissalmente lontano da quelle vite, da quelle scelte, da quelle fedi.

Le stupidaggini, invece, riguardano due perplessità sul testo ufficiale latino delle dimissioni:

1) quel riferimento a dimissioni che avverranno a die 28 februarii MMXIII, hora 29: questa hora 29 cos’è? un modo di contare le ore pontificio che a me sfugge? un errore grossolano di trascrizione? un segnale in codice? o magari l’indizio che è tutto uno scherzo: “Mi dimetto, sì, alle ore 29” (“…che non esistono”; come quell’amica mia che diceva: “Lo sposo? Certo, a ottembre“).

2) per quel che ci capisco io (e non è molto, in verità) in “pro Ecclessiae vitae” c’è una e di troppo. Tocca mettere in discussione il dogma dell’infallibilità del papa?

Ne aggiungo una terza: pare che in Vaticano molti, ascoltando le parole del papa, non abbiano capito cosa stava dicendo. Eh, il latino…

[Aggiornamento: dall’audio originale che si può sentire in rete risulta chiaro che B. dice vita e dice hora vigesima. E’ un errore dei trascrittori pontifici. Sono più tranquillo.]

Il male che si fa

Oltre le colline, di Cristian Mungiu. Con Cosmina Stratan, Cristina Flutur. Romania 2012, 155′.

(spoiler alert: come al solito non mancano elementi di anticipazione della trama: datevi una regolata)

Il recensore di Le monde (ma io lo leggo sul numero 973 di Internazionale) di questo film dice:

Vedendolo, nonostante la bellezza delle immagini, può sembrare di annoiarsi. Ma il film passa attraverso la pelle e non vi lascerà per molto tempo dopo averlo visto. Ha una forza evocatrice insinuante, un modo obliquo di mostrarci qualcosa che non avremmo saputo o voluto vedere.

Non so quale considerazione goda presso di voi, di solito, il recensore di Le monde; in ogni caso fidatevi, almeno questa volta. Vedendo questo film capita esattamente questo: mentre lo guardi ci sono momenti in cui senti perfettamente ogni spuntone scomodo della poltrona, e hai tempo di constatare come il Tiffany, sì, ha effettivamente vissuto momenti migliori, e sembra quasi impossibile che ci sia stato un tempo in cui non ci fosse, come una radiazione cosmica di fondo, questo insinuante afrore di polvere e umanità stantia… Insomma, il film ti lascia effettivamente il tempo di distrarti, di divagare, perché è così che è costruito: i primi minuti (l’abbraccio alla stazione, il pianto liberatorio) emotivamente travolgenti, poi la lentissima costruzione del dramma morale (potrebbe averlo scritto Dostoevskij), e per concludere il finale in crescendo. Alla fine rimani tu, con una storia dura, dei personaggi complessi e un sacco di domande da portare a casa.

La storia (vera) è piuttosto semplice: Alina e Voichita sono due ragazze che si ritrovano dopo essersi conosciute e amate all’orfanotrofio: ora Alina, che ha lavorato in Germania, raggiunge Voichita nel monastero ortodosso dove si è ritirata con undici consorelle e un severo monaco-padre. Ma l’amore umano e l’amore divino non possono convivere: Alina sente Voichita sempre più distante, e mostra segni di squilibrio. Voichita è divisa fra la scelta religiosa e l’affetto per la fragile amica. Alina diventa ben presto un insostenibile elemento di disturbo nella rigida quotidiana regola del mondo chiuso del monastero.

Il “padre” e le altre suore, in perfetta buona fede, applicandocon Alina le sacre regole del loro mondo, cercano di affrontare il problema, con umanissime incertezze e religioso rigore al tempo stesso: ultima ratio, si decide di ricorrere ad un esorcismo, con atroci conseguenze di torture e sevizie. L’aspetto forse più interessante del film è proprio questo: il dispiegarsi della progressiva disumanizzazione del rapporto fra Alina, Voichita e i religiosi del monastero, che senza rendersene conto diventano – pensando di fare del bene – i “volenterosi carnefici” di Dio. Alla fine, messi di fronte alle loro responsabilità non proveranno, se non molto timidamente, a difendersi, a giustificarsi, mostrando una fragilità per certi aspetti commovente. E ci chiediamo se lo sguardo duro, con cui Voichita (nella scena più bella del film) giudica il “padre” e le “sorelle”, possa essere anche il nostro. O se quello sguardo non debba essere rivolto prima di tutto a ciascuno di noi, alla nostra debolezza umana che non può reggere all’assoluto, quando l’assoluto si fa sistema di potere.

In una delle prime scene del film Voichita fa vedere ad Alina dei dipinti abbozzati sulle tavole che coprono il pozzo del convento, e spiega: “sono delle prove per gli affreschi della chiesa, ma poi sono finiti i soldi e l’artista se n’è andato: ci è rimasto solo questo abbozzo”. La scena inquadra i volti delle due protagoniste che guardano il dipinto, ma il dipinto resta fuori campo e Mungiu non ce lo farà vedere mai. Mungiu è un regista fatto così, e questa scena è una dichiarazione di poetica: io ti faccio vedere dei personaggi, ti racconto una storia, ma tu spettatore devi immaginarti tutto il resto, perché molto spesso le cose veramente importanti stanno fuori dall’inquadratura. Buona visione!

L’ora di religione

Donato Placido in una scena de L’ora di religione di Marco Bellocchio (2002)

Avevo cominciato a scrivere un lungo pippone per dire anch’io la mia sull’uscita del ministro Profumo sull’ora di religione. Mi ero anche letto qualche articolo sull’Avvenire a cui volevo replicare punto per punto. Poi ho letto un post di Leonardo, e mi sono trovato d’accordo con lui su quasi tutto. Quindi, se vi va, leggetevi lui (e cfr. anche il Post).

Piccola antologia di versi di un poeta contemporaneo

Confessioni di Pier

Se poi la coda / Tornò di moda, / Ligio al Pontefice / E al mio Sovrano, / Alzai patiboli / Da buon cristiano.
La roba presa / Non fece ostacolo; / Ché col difendere / Corona e Chiesa, / Non resi mai / Quel che rubai.

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Parere

In questo secolo / vano e banchiere / che più dell’essere / conta il parere.

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Elogio della follia

In barba all’ebete/ servitorame / degli sgobboni / ciuchi e birboni; […] / a conti fatti, / beati i matti!

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Notizie dall’Iran

“Dal mio Stato felicissimo / (che per grazia dell’Altissimo / serbo nelle tenebre) / imporrò con un decreto / che chi puzza d’alfabeto / torni indietro subito: / e proseguano il viaggio, / purché paghino il pedaggio, / solamente gli asini.”

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La civiltà dei consumi

La spada è un’arme stanca, / scanna meglio la banca. // Pace a tutta la terra; / a chi non compra, guerra!

L’autore di questi versi è Beppe Giusti, giovane studente di Monsummano Terme, che ha scelto come sua cifra stilistica di travestire in stile ottocentesco le sue osservazioni sull’Italia e sul mondo di oggi. I critici, pur apprezzando la capacità di cogliere le contraddizioni del mondo presente, ritengono la sua scrittura troppo acerba, incapace ancora di sollevarsi dal mero dato di cronaca, e da una descrizione nuda dei fatti. In definitiva, gli viene contestato di fare una poesia valida solo in relazione alla condizione politica e sociale di questi anni, anzi di questi giorni, che certo non potrà essere compresa né tantomeno condivisa dalle generazioni che verranno.

(Le citazioni provengono da un saggio di Gino Tellini contenuto in questo libro)

Tentazioni, dubbi e scelte

Michela Murgia, scrivendo l’introduzioneL’ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis, racconta la sua esperienza di insegnante di religione, e soprattutto ci spiega come è finita. Trovo la storia interessante per molti aspetti: didattici, etici, e politici. Ne consiglio la lettura a te che passi, mentre a me consiglio la lettura del libro intero.

Quella della Murgia è, a mio avviso, soprattutto una testimonianza sulla necessità del coraggio di ascoltarsi, di capirsi, e di fare le scelte conseguenti. E anche sul fatto che queste scelte, se vengono da una motivazione profonda e sincera, alla fine pagano. Sperimentando sulla propria pelle la censura delle gerarchie ecclesiastiche, Michela Murgia ha preferito non adeguarsi e seguire il suo imperativo etico: l’anno successivo ha evitato di presentare domanda per la cattedra (andando, tra l’altro, a mettere il dito nella piaga dolente dell’assurdità di un insegnante abilitato – di fatto – da un’autorità esterna e confessionale per andare a insegnare in una scuola pubblica, non confessionale). Da quella rinuncia è scaturita, per la futura scrittrice, una stagione di sacrifici, certo, ma anche un libro (Il mondo deve sapere) e la scoperta di una vocazione letteraria che ha portato i frutti che sappiamo. Tanto di cappello.

Aggiungo che, proprio pochi minuti prima di scovare per caso questo articolo della Murgia su internet, stavo rileggendo alcune parti di Sostiene Pereira, fra le quali una pagina che, a pensarci bene, parla della stessa cosa: di come nascono le scelte che cambiano le vite, i destini degli esseri umani.

Le righe che seguono sono tratte dal sedicesimo capitolo del libro.

Il dottor Cardoso cominciò a mangiare la sua sogliola alla mugnaia e Pereira seguì il suo esempio. Bisognerebbe che conoscessi meglio gli ultimi mesi della sua vita, disse il dottor Cardoso, forse c’è stato un evento. Un evento in che senso, chiese Pereira, che vuol dire con questo? Evento è una prola della psicoanalisi, disse il dottor Cardoso, non è che io creda troppo a Freud, perchè sono un sincretista, ma credo che sul fatto dell’evento abbia ragione senz’altro, l’evento è un avvenimento concreto che si verifica nella nostra vita e che sconvolge o che turba le nostre convinzioni e il nostro equilibrio, insomma l’evento è un fatto che si produce nella vita reale e che influisce sulla vita psichica, lei dovrebbe riflettere se nella sua vita c’è stato un evento. Ho conosciuto una persona, sostiene di aver detto Pereira, anzi, due persone, un giovanotto e una ragazza. Me ne parli pure, disse il dottor Cardoso. Bene, disse Pereira, il fatto è che alla pagina culturale avevo bisogno dei necrologi anticipati degli scrittori importanti che possono morire da un momento all’altro, e la persona che ho conosciuto ha fatto una tesi sulla morte, è vero che in parte l’ha copiata, ma all’inizio mi sembrava che di morte se ne intendesse, e così l’ho preso come praticante, per fare i necrologi anticipati, e lui me ne ha fatto qualcuno, glieli ho pagati di tasca mia perchè non volevo pesare sul giornale, ma sono tutti impubblicabili, perchè quel ragazzo ha in testa la politica e ogni necrologio lo fa con una visione politica, per la verità penso che sia la sua ragazza a mettergli in testa queste idee, insomma, fascismo, socialismo, guerra civile di Spagna e cose del genere, sono tutti articoli impubblicabili, come le ho detto, e io finora l’ho pagato. Non c’è niente di male, rispose il dottor Cardoso, in fondo rischia solo i suoi soldi. Non è questo, sostiene di aver ammesso Pereira, il fatto è che mi è venuto un dubbio: e se quei due ragazzi avessero ragione? In tal caso avrebbero ragione loro, disse pacatamente il dottor Cardoso, ma è la Storia che lo dirà e non lei, dottor Pereira.

Sì, disse Pereira, però se loro avessero ragione la mia vita non avrebbe senso, non avrebbe senso avere studiato lettere a Coimbra e avere sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, non avrebbe senso che io diriga la pagina culturale di questo giornale del pomeriggio dove non posso esprimere la mia opinione e dove devo pubblicare racconti dell’Ottocento francese, non avrebbe senso più niente, e è di questo che sento il bisogno di pentirmi, come se io fossi un’altra persona e non il Pereira che ha sempre fatto il giornalista, come se io dovessi rinnegare qualcosa. Il dottor Cardoso chiamò la cameriera e ordinò due macedonie di frutta senza zucchero e senza gelato. Voglio farle una domanda, disse il dottor Cardoso, lei conosce i médecins-philosophes? No, ammise Pereira, non li conosco, chi sono? I principali sono Théodule Ribot e Pierre Janet, disse il dottor Cardoso, è sui loro testi che ho studiato a Parigi, sono medici e psicologi, ma anche filosofi, sostengono una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere ‘uno’ che fa parte a sè, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perchè noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione.

Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c’è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo. Il dottor Cardoso finì di mangiare la sua macedonia e si asciugò la bocca con il tovagliolo. E dunque cosa mi resterebbe da fare?, chiese Pereira. Nulla, rispose il dottor Cardoso, semplicemente aspettare, forse c’è un io egemone che in lei, dopo una lenta erosione, dopo tutti questi anni passati nel giornalismo a fare la cronaca nera credendo che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, forse c’è un io egemone che sta prendendo la guida della confederazione delle sue anime, lei lo lasci venire alla superficie, tanto non può fare diversamente, non ci riuscirebbe e entrerebbe in conflitto con se stesso, e se vuole pentirsi della sua vita si penta pure, e anche se ha voglia di raccontarlo a un sacerdote glielo racconti, insomma, dottor Pereira, se lei comincia a pensare che quei ragazzi hanno ragione e che la sua vita finora è stata inutile, lo pensi pure, forse da ora in avanti la sua vita non le sembrerà più inutile, si lasci guidare dal suo nuovo io egemone e non compensi il suo tormento con il cibo e con le limonate piene di zucchero.

“Scuole non commerciali”: che vor di’?

La mia unica fonte, per ora, è questo articolo di Repubblica.it. Poi magari approfondirò, studierò, capirò. Per ora, così su due piedi e da un’unica fonte, non capisco proprio.

Già il titolo: Monti: “Esenti dall’Imu scuole non commerciali”. Che vuol dire? Quali sono le scuole commerciali? Quelle che fanno pagare la retta o quelle che vendono voti e diplomi? Le prime sono tutte quelle non pubbliche, le altre… non dovrebbero esistere.

Poi leggo che Monti fissa tre parametri “necessari” e “ragionevoli”. Primo: le scuole Imu-esenti devono essere “assimilabili al pubblico” sotto il profilo dei programmi (ovvio), dell’accoglienza degli alunni disabili (più che ovvio) e della applicazione della contrattazione collettiva del personale (ovvissimo). Come dire: le scuole devono rispettare la legge. Mecojoni! Secondo: il servizio deve essere “aperto a tutti i cittadini alle stesse condizioni”. Come dire: la retta del figlio della Severino deve essere uguale a quella di Mohamed, ambulante marocchino, arrivato l’altro ieri in  Italia. In effetti, sì, quel che è giusto è giusto. Andiamo avanti: terzo parametro: la selezione all’ingresso deve essere per merito e non dovuta a norme “discriminatorie”. Se Monti sente di dover mettere questo paletto, evidentemente è perché esistono casi di scuole che discriminano (per razza? religione? colore della pelle? cos’altro?), quindi che non rispettano la Costituzione. Bene. Sono contento.

L’articolo, poi, continua così:

l’organizzazione della scuola, anche dal punto di vista delle rette, deve essere tale “da preservare senza alcun dubbio la finalità non lucrativa”. Gli “avanzi” dunque non siano un “profitto” ma “sostegno direttamente correlato ed esclusivamente destinato alla gestione dell’attività didattica”.

Come si fa a definire tutto questo? Vanno gli ispettori del Ministero? Si controllano i bilanci delle scuole? Si manda l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza con i cani lupo? O basta un’autodichiarazione di Bagnasco? Non so davvero. Io, come dicevo, non capisco.

Più avanti nell’articolo, però, leggo una dichiarazione della CEI, che mi pare abbia capito tutto e subito: “Le dichiarazioni di Monti vanno nella direzione giusta, quella portata avanti anche in Europa. Scuole e oratori sono attività no profit e non ha senso tassare attività che hanno chiara rilevanza pubblica e sociale”. Cioè: le scuole cattoliche non saranno tassate, come gli oratori e le chiese. Fine del problema. Amen.