Senza risposte

C’era un tempo in cui non capivo proprio niente, e quando avevo a che fare con roba a vario titolo legata alla cultura ci cercavo le risposte. Poi per fortuna ho capito che le risposte stanno a pagina 46 della settimana enigmistica e che nei libri e nei film al massimo potevo cercare buone domande. Però le risposte continuavo a cercarle, forse un po’ più appropriatamente, nei giornali, nei buoni giornali. Ora nemmeno quello. Sempre più mi accorgo che l’unica cosa che mi interessa sono le storie delle persone, e più di queste persone vengono messe in luce le incertezze, i dubbi di fronte ad una scelta, più mi pare che queste storie abbiano per me un senso.

Per questo qualche sera sera fa mi è piaciuto vedere l’ambiguo melodramma di François Ozon; per questo la settimana scorsa mi sono sentito di scrivere un post di elogio per un’intervista problematica e per niente banale ad una donna che aveva deciso di aiutare due gay ad avere dei figli (erano i giorni di Dolce e Gabbana, fra l’altro…); per questo sono rimasto molto colpito per un articolo letto su Internazionale che racconta la vicenda di Willie Parker, l’unico medico che – in un contesto fortemente ostile – pratica l’aborto nello stato del Mississippi. Parker è un medico nato da una madre sola e povera, ultimo di cinque figli, diventato medico solo grazie alla sua bravura e alle borse di studio, cresciuto in un contesto fortemente religioso e che da giovane è stato un ginecologo antiabortista, finché un suo collega e amico che praticava aborti non è stato ucciso di un fondamentalista cristiano, in chiesa, con un colpo di pistola alla testa. Da quel momento quest’uomo ha messo radicalmente in discussione i suoi convincimenti, e dopo molte complicate riflessioni ha deciso di dare una mano ad abortire alle donne del Mississippi, quasi tutte nere come lui, che senza di lui non avrebbero grandi alternative alla trementina, all’acido sturalavandini o al buttarsi dalle scale. L’articolo racconta benissimo non solo i rischi che Parker corre (e il contesto terribile della bible belt, un scenario al quale rischiamo di avvicinarci anche noi…), ma anche i dubbi, i momenti tragici, il dolore e la fatica. Ma – soprattutto – i dubbi. E non dà risposte.

L’articolo di Claas Relotius che racconta la storia di Willie Parker, originariamente apparso su Der Spiegel, si legge in italiano nel numero 1095 di Internazionale. In rete può essere al momento reperito in questa rassegna stampa: vale la pena di leggerlo fino all’ultima riga.

PS: Naturalmente con trenta secondi di ricerca su google si trova il periodico cattolico che assimila Willie Parker a “Heichmann” (con l’acca, ovvio). Ma  di gente piena zeppa di risposte ce n’è sempre stata tanta, troppa, in questo mondo.

Una fatica risparmiata

Provi a mettere a fuoco dei pensieri, vuoi farci un post, ma non ne hai voglia. Così aspetti qualche giorno, in attesa che la voglia arrivi e i pensieri diventino più chiari. Ma non arriva né la voglia né la chiarezza. Intanto, però, c’è chi scrive le stesse cose che stavi meditando tu, e molto meglio di quanto le avresti scritte tu. Che bella la rete: basta aspettare, e qualcuno, prima o poi, da qualche parte, fa qualsiasi cosa al posto tuo!

Così è andata anche questa volta, che volevo dichiarare pubblicamente le mie forti perplessità a proposito della prima prova dell’Esame di Stato 2014. Volevo sottolineare come al Ministero, dopo la scelta forte, quasi rivoluzionaria, fatta l’anno scorso proponendo per l’analisi del testo un brano molto poco ortodosso di Claudio Magris (una scelta che indicava una strada didatticamente difficile ma suggestiva), sia tornato indietro di almeno vent’anni, proponendo insensatamente una poesia di Quasimodo che non ha davvero nulla più da dire a nessuno, ormai. E volevo parlare di come abbia peggiorato le cose proponendo un saggio breve d’ambito artistico-letterario che di letterario non aveva proprio niente, a parte un insulso passo di un datato racconto della Deledda, pieno di spirito cristiano in salsa decadente che Dio ce ne scampi. Tutto molto reazionario, insomma. E aggiungo: didatticamente inconcepibile: un patrimonio letterario, e con esso la ricchezza di prospettive culturali e umane che elabora e trasmette, ridotto a stanchi riferimenti casuali, giustificati solo dall’etichetta del Nobel (quasi che, nella conflagrazione del canone, l’unico criterio di scelta rimasto ai burocrati ministeriali sia quello dell’opinabilissimo e criticamente insignificante premio svedese). Uno scenario, insomma, desolante. Tanto desolante da rendere  plausibile il pensiero che il piano sia semplice e terribile: svuotare completamente di senso lo studio delle letterature a scuola, fino a renderne accettabile, e persino auspicabile (presso l’opinione pubblica, e prima o poi anche presso gli addetti ai lavori), l’eliminazione, l’annientamento.

Volevo dire queste cose, insomma, sviluppare questi pensieri, ma poi per fortuna mi hanno segnalato un un pezzo di Marina Polacco su Le parole e le cose. E amen.

Eleonora

Ecco, se devo dire chi mi viene da ricordare in questo otto marzo 2013, dico che mi ricordo di questa donna morta a Napoli nel 1799, appesa ad una forca per i suoi ideali, e forse per la sua ingenuità, che fu quella di tutti coloro che, come lei, provarono a portare al popolo libertà e uguaglianza, e che dal popolo furono invece sbranati, distrutti. Si chiamava Eleonora de Fonseca Pimentel, e fu la direttrice del “Monitore Napoletano”.

Vincenzo Cuoco, che di quella rivoluzione napoletana miseramente fallita fu protagonista e testimone, di lei lasciò scritte queste poche righe:

Pimentel Eleonora Fonseca. “Audet viris concurrere virgo“. Ma essa si spinse nella rivoluzione, come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa donna avea meritata l’approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l’adornavano. Nell’epoca della repubblica scrisse il Monitore napolitano, da cui spira il piú puro ed il piú ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un’indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo, volle bevere il caffè, e le sue parole furono: – “Forsan haec olim meminisse iuvabit“.

Qui di seguito una scena dal film Il resto di niente (2004), tratto dall’omonimo romanzo di Enzo Striano (1986)

May and June

Prima stavo leggendo un articolo su Internazionale che parlava dei recenti referendum che hanno introdotto i matrimoni gay in alcuni stati degli USA. Sulla pagina campeggiava una foto molto americana, ma anche molto bella. Questa:

Per un attimo ho provato a immaginare la storia di queste due persone. Non so perché ma mi è venuto da dar loro anche dei nomi che non so nemmeno se esistono (May e June), e mi sono chiesto quali storie, quali amori e quali dolori ci possano essere dietro quelle espressioni stanche e felici, dietro quelle dita intrecciate. Provate a farlo anche voi. E, alla luce della storia che sarete in grado di immaginare, ditemi cosa ne pensereste di una famiglia formata da May e June.

Postilla. La cronaca di questi giorni dice che questo post è tragicamente sul pezzo…

L’ora di religione

Donato Placido in una scena de L’ora di religione di Marco Bellocchio (2002)

Avevo cominciato a scrivere un lungo pippone per dire anch’io la mia sull’uscita del ministro Profumo sull’ora di religione. Mi ero anche letto qualche articolo sull’Avvenire a cui volevo replicare punto per punto. Poi ho letto un post di Leonardo, e mi sono trovato d’accordo con lui su quasi tutto. Quindi, se vi va, leggetevi lui (e cfr. anche il Post).

Bella addormentata

Ho visto Bella addormentata la sera in cui è uscito nelle sale. Anzi: la sera prima, perché il multisala dove ero andato per vedere l’ennesimo film sulla scuola aveva deciso di anticipare di un giorno la proiezione dell’opera di Bellocchio. Questo non significa che l’abbia visto per sbaglio: ci sarei andato comunque e comunque prima possibile, perché il tema mi è sempre stato molto caro, perché Bellocchio è un regista che non sempre capisco ma che sempre mi interroga, e anche perché Bella addormentata è uno di quei film che quando l’hai visto poi hai qualcosa di cui parlare con gli amici per qualche mese almeno. Ci sarei andato lo stesso, dunque, ma il contrattempo ha avuto, in ogni caso, delle conseguenze sulla visione, per due motivi. Primo motivo: non ero assolutamente preparato al film; né la ragione né le emozioni erano state allertate, e sono stato catapultato in un mondo che non era quello che pensavo avrei abitato quella sera. Secondo motivo:  andavo al cinema con una compagnia un po’ diversa dal solito; si doveva vedere un film sulla scuola e stavo, guarda caso, fra insegnanti; e nella compagnia c’era un fervente cattolico molto attento all’ortodossia, e una donna appena reduce da un lutto, costretta a sperimentare sulla pelle di una persona cara la brutale concretezza di espressioni apparentemente algide come “interruzione dell’accanimento terapeutico”. C’erano, dunque, le premesse per un’esperienza forte. E tale è stata, in effetti.

A me, tanto vale dirlo subito, il film è piaciuto moltissimo. Anzi: pur nella imperfezione di tanti aspetti singoli, mi è sembrato un film perfetto. Spiego: Bellocchio secondo me si è fatto carico di una sfida quasi impossibile: trattare in un’opera d’arte un caso umano (o di cronaca, o politico, o giudiziario, o culturale, o non so come altro definirlo) così tormentoso e complesso come quello di Eluana Englaro, e del filo di vita e di morte che l’ha legata per tanti anni al padre Beppino (e non solo a lui). Era, obiettivamente, qualcosa di difficilissimo. Fra i pericoli dell’apologo morale da una parte e dell’estetica da fiction dall’altra, non c’erano molte strade, forse una soltanto, e quella strada secondo me Bellocchio l’ha saputa percorrere. Per questo dico che è un film perfetto, perché è forse l’unico film che su questo tema si potesse fare. Per realizzarlo Bellocchio non solo ha tolto il corpo e i volti dei protagonisti veri dalla scena (scelta per tanti  versi necessaria); ha anche riempito il film – come è nella sua poetica – di personaggi che non si preoccupano mai di sembrare realistici ma che sono, nella trasfigurazione dell’arte, sempre (o almeno: molto spesso) veri. Sono personaggi esagerati, spesso nevrotici, a volte disturbati e disturbanti, sempre terribilmente inquieti e fragili di fronte ai problemi ultimi. Ritratti deformati di tutti noi, alla fin fine.

Accanto a questo, c’è anche un discorso sulla società. Non propriamente un discorso politico, ma sulla crisi di cultura e di umanità che attanaglia il nostro vivere di italiani di oggi, e che trova nella politica, se non altro, uno specchio. Partiamo da un dettaglio, che poi tanto dettaglio non è: molti dei personaggi del film sono costretti dal regista a fare i conti con la presenza ossessiva di schermi televisivi che proiettano le loro luci livide e spettrali su corpi, volti, oggetti. In una scena misteriosa e affascinante due uomini (un fratello, un padre) completamente proiettati su sé stessi, sulle loro ambizioni e sulle loro sconfitte, anche di fronte al coma della sorella, alla follia della moglie, rimangono attoniti a guardare su uno schermo enorme le evoluzioni sottomarine di giganteschi e inquietanti ippopotami. Ma è soprattutto nelle stanze della politica – attraversate dal sempre bravissimo Toni Servillo – che la televisione è onnipresente. Nell’era berlusconiana (di cui il film compone il ritratto più convincente che mi sia stato dato di vedere) la televisione è onnipresente, dalle stanze del potere all’ultimo tinello: in ogni stanza del Palazzo vengono trasmessi i tg o i discorsi dei parlamentari (quasi a dire che tali discorsi hanno ragion d’essere solo se teletrasmessi); persino nel surreale bagno turco che è teatro di alcune fra le scene più riuscite del film (ad esempio l’ormai noto dialogo fra il Senatore-Servillo e lo Psichiatra-Herlitzka) c’è sempre uno schermo su cui scorrono informazioni relative ai lavori dell’Aula; in un’altra scena i politici di Forza Italia si fanno una foto, ma i loro veri volti sono oscurati dalla proiezione di un filmino propagandistico. Fino ad un momento che m’è parso geniale: un personaggio sta per entrare nell’Aula del Parlamento, e sta davanti ad una grande ed elegante porta di legno, la porta si apre e dentro si vede, invece dell’aula, una riproduzione video (piuttosto sgranata) della stessa.

Il film mi pare, insomma, la metafora di un paese che ha perso la sua umanità, senza guida etica e morale; la massa imbestiata dal rincitrullimento televisivo, gli individui lasciati soli con le loro cose e le loro idee, le loro idiosincrasie, le loro nevrotiche paure. Non mi è sembrato, invece, un film (solo) sui problemi etici, tanto meno un film che su quei problemi vuole dirci la sua verità, o darci la sua ricetta. Forse ci chiede solo, in assenza della struttura etica e politica necessaria ad un paese per affrontarli con serenità, di non strumentalizzarli a fini di parte.

Mi pare anche che sia un film sui confini, e sulla loro essenza labile, equivoca. Le cose, lì sul bordo, non sempre sono semplici e chiare, e non sempre sono quel che sembrano. Di fronte a quel tremendo e intimo momento in cui un essere umano smette di vivere, be’, dire qualche verità assoluta è molto rischioso, e evitare equivoci non è facile. In conclusione, dopo il film mi viene da ribadire ancora una volta quel poco che da tempo sostengo, su questi argomenti: come sembra volerci dire anche l’epilogo della vicenda umana del Cardinale Martini, quei momenti non possono essere di altri che del morente e di chi, con lui, ha condiviso una vita di legami e di affetti. E nessun potere, politico o religioso, può rivendicare la proprietà e la giurisdizione su quel territorio.

Dopo aver visto il film, ho letto qualche recensione (non molte in verità). Fra tutte mi ha stupito quella, inutilmente livorosa (fin dal titolo) e priva di qualsiasi empatia artistica, di Michela Murgia, che legge il film solo con gli occhi delle categorie politico-religiose (cattolici e laici, radicali e clericali…), senza nessuno sforzo per cercare di entrare nel mondo del regista. Ha dell’incredibile, se penso che la Murgia è l’autrice di Accabadora, libro che ho amato molto, e molto ho raccomandato proprio per la sensibilità con cui accosta temi complessi quali l’eutanasia. Comunque ho capito che con i consigli di lettura e di visione dell’autrice sarda devo andarci molto cauto: una sua prefazione al romanzo L’ultima tentazione di Cristo, anticipata sul suo blog (e che mi era piaciuta parecchio), mi ha già spinto, l’estate scorsa, ad una delle letture più faticose e aride degli ultimi anni: quello di Kazantzakis è un libro noioso, di troppe pagine e di poche idee, che non merita certo i soldi necessari ad acquistare la ristampa niente affatto economica prefata dalla Murgia. Ve lo dico: sono soldi sprecati: usateli piuttosto per andare a vedere il film di Bellocchio; e vi resteranno anche gli spiccioli per i popcorn.

Molto bella, invece, la recensione di Gianluca. Anche se forse non è bello citarsi a vicenda…

Se poi volete la recensione di un critico cinematografico vero…

Tentazioni, dubbi e scelte

Michela Murgia, scrivendo l’introduzioneL’ultima tentazione di Cristo di Nikos Kazantzakis, racconta la sua esperienza di insegnante di religione, e soprattutto ci spiega come è finita. Trovo la storia interessante per molti aspetti: didattici, etici, e politici. Ne consiglio la lettura a te che passi, mentre a me consiglio la lettura del libro intero.

Quella della Murgia è, a mio avviso, soprattutto una testimonianza sulla necessità del coraggio di ascoltarsi, di capirsi, e di fare le scelte conseguenti. E anche sul fatto che queste scelte, se vengono da una motivazione profonda e sincera, alla fine pagano. Sperimentando sulla propria pelle la censura delle gerarchie ecclesiastiche, Michela Murgia ha preferito non adeguarsi e seguire il suo imperativo etico: l’anno successivo ha evitato di presentare domanda per la cattedra (andando, tra l’altro, a mettere il dito nella piaga dolente dell’assurdità di un insegnante abilitato – di fatto – da un’autorità esterna e confessionale per andare a insegnare in una scuola pubblica, non confessionale). Da quella rinuncia è scaturita, per la futura scrittrice, una stagione di sacrifici, certo, ma anche un libro (Il mondo deve sapere) e la scoperta di una vocazione letteraria che ha portato i frutti che sappiamo. Tanto di cappello.

Aggiungo che, proprio pochi minuti prima di scovare per caso questo articolo della Murgia su internet, stavo rileggendo alcune parti di Sostiene Pereira, fra le quali una pagina che, a pensarci bene, parla della stessa cosa: di come nascono le scelte che cambiano le vite, i destini degli esseri umani.

Le righe che seguono sono tratte dal sedicesimo capitolo del libro.

Il dottor Cardoso cominciò a mangiare la sua sogliola alla mugnaia e Pereira seguì il suo esempio. Bisognerebbe che conoscessi meglio gli ultimi mesi della sua vita, disse il dottor Cardoso, forse c’è stato un evento. Un evento in che senso, chiese Pereira, che vuol dire con questo? Evento è una prola della psicoanalisi, disse il dottor Cardoso, non è che io creda troppo a Freud, perchè sono un sincretista, ma credo che sul fatto dell’evento abbia ragione senz’altro, l’evento è un avvenimento concreto che si verifica nella nostra vita e che sconvolge o che turba le nostre convinzioni e il nostro equilibrio, insomma l’evento è un fatto che si produce nella vita reale e che influisce sulla vita psichica, lei dovrebbe riflettere se nella sua vita c’è stato un evento. Ho conosciuto una persona, sostiene di aver detto Pereira, anzi, due persone, un giovanotto e una ragazza. Me ne parli pure, disse il dottor Cardoso. Bene, disse Pereira, il fatto è che alla pagina culturale avevo bisogno dei necrologi anticipati degli scrittori importanti che possono morire da un momento all’altro, e la persona che ho conosciuto ha fatto una tesi sulla morte, è vero che in parte l’ha copiata, ma all’inizio mi sembrava che di morte se ne intendesse, e così l’ho preso come praticante, per fare i necrologi anticipati, e lui me ne ha fatto qualcuno, glieli ho pagati di tasca mia perchè non volevo pesare sul giornale, ma sono tutti impubblicabili, perchè quel ragazzo ha in testa la politica e ogni necrologio lo fa con una visione politica, per la verità penso che sia la sua ragazza a mettergli in testa queste idee, insomma, fascismo, socialismo, guerra civile di Spagna e cose del genere, sono tutti articoli impubblicabili, come le ho detto, e io finora l’ho pagato. Non c’è niente di male, rispose il dottor Cardoso, in fondo rischia solo i suoi soldi. Non è questo, sostiene di aver ammesso Pereira, il fatto è che mi è venuto un dubbio: e se quei due ragazzi avessero ragione? In tal caso avrebbero ragione loro, disse pacatamente il dottor Cardoso, ma è la Storia che lo dirà e non lei, dottor Pereira.

Sì, disse Pereira, però se loro avessero ragione la mia vita non avrebbe senso, non avrebbe senso avere studiato lettere a Coimbra e avere sempre creduto che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, non avrebbe senso che io diriga la pagina culturale di questo giornale del pomeriggio dove non posso esprimere la mia opinione e dove devo pubblicare racconti dell’Ottocento francese, non avrebbe senso più niente, e è di questo che sento il bisogno di pentirmi, come se io fossi un’altra persona e non il Pereira che ha sempre fatto il giornalista, come se io dovessi rinnegare qualcosa. Il dottor Cardoso chiamò la cameriera e ordinò due macedonie di frutta senza zucchero e senza gelato. Voglio farle una domanda, disse il dottor Cardoso, lei conosce i médecins-philosophes? No, ammise Pereira, non li conosco, chi sono? I principali sono Théodule Ribot e Pierre Janet, disse il dottor Cardoso, è sui loro testi che ho studiato a Parigi, sono medici e psicologi, ma anche filosofi, sostengono una teoria che mi pare interessante, quella della confederazione delle anime. Mi racconti questa teoria, disse Pereira. Ebbene, disse il dottor Cardoso, credere di essere ‘uno’ che fa parte a sè, staccato dalla incommensurabile pluralità dei propri io, rappresenta un’illusione, peraltro ingenua, di un’unica anima di tradizione cristiana, il dottor Ribot e il dottor Janet vedono la personalità come una confederazione di varie anime, perchè noi abbiamo varie anime dentro di noi, nevvero, una confederazione che si pone sotto il controllo di un io egemone. Il dottor Cardoso fece una piccola pausa e poi continuò: quella che viene chiamata la norma, o il nostro essere, o la normalità, è solo un risultato, non una premessa, e dipende dal controllo di un io egemone che si è imposto sulla confederazione delle nostre anime; nel caso che sorga un altro io, più forte e più potente, codesto io spodesta l’io egemone e ne prende il posto, passando a dirigere la coorte delle anime, meglio la confederazione, e la preminenza si mantiene fino a quando non viene spodestato a sua volta da un altro io egemone, per un attacco diretto o per una paziente erosione.

Forse, concluse il dottor Cardoso, dopo una paziente erosione c’è un io egemone che sta prendendo la testa della confederazione delle sue anime, dottor Pereira, e lei non può farci nulla, può solo eventualmente assecondarlo. Il dottor Cardoso finì di mangiare la sua macedonia e si asciugò la bocca con il tovagliolo. E dunque cosa mi resterebbe da fare?, chiese Pereira. Nulla, rispose il dottor Cardoso, semplicemente aspettare, forse c’è un io egemone che in lei, dopo una lenta erosione, dopo tutti questi anni passati nel giornalismo a fare la cronaca nera credendo che la letteratura fosse la cosa più importante del mondo, forse c’è un io egemone che sta prendendo la guida della confederazione delle sue anime, lei lo lasci venire alla superficie, tanto non può fare diversamente, non ci riuscirebbe e entrerebbe in conflitto con se stesso, e se vuole pentirsi della sua vita si penta pure, e anche se ha voglia di raccontarlo a un sacerdote glielo racconti, insomma, dottor Pereira, se lei comincia a pensare che quei ragazzi hanno ragione e che la sua vita finora è stata inutile, lo pensi pure, forse da ora in avanti la sua vita non le sembrerà più inutile, si lasci guidare dal suo nuovo io egemone e non compensi il suo tormento con il cibo e con le limonate piene di zucchero.

“Scuole non commerciali”: che vor di’?

La mia unica fonte, per ora, è questo articolo di Repubblica.it. Poi magari approfondirò, studierò, capirò. Per ora, così su due piedi e da un’unica fonte, non capisco proprio.

Già il titolo: Monti: “Esenti dall’Imu scuole non commerciali”. Che vuol dire? Quali sono le scuole commerciali? Quelle che fanno pagare la retta o quelle che vendono voti e diplomi? Le prime sono tutte quelle non pubbliche, le altre… non dovrebbero esistere.

Poi leggo che Monti fissa tre parametri “necessari” e “ragionevoli”. Primo: le scuole Imu-esenti devono essere “assimilabili al pubblico” sotto il profilo dei programmi (ovvio), dell’accoglienza degli alunni disabili (più che ovvio) e della applicazione della contrattazione collettiva del personale (ovvissimo). Come dire: le scuole devono rispettare la legge. Mecojoni! Secondo: il servizio deve essere “aperto a tutti i cittadini alle stesse condizioni”. Come dire: la retta del figlio della Severino deve essere uguale a quella di Mohamed, ambulante marocchino, arrivato l’altro ieri in  Italia. In effetti, sì, quel che è giusto è giusto. Andiamo avanti: terzo parametro: la selezione all’ingresso deve essere per merito e non dovuta a norme “discriminatorie”. Se Monti sente di dover mettere questo paletto, evidentemente è perché esistono casi di scuole che discriminano (per razza? religione? colore della pelle? cos’altro?), quindi che non rispettano la Costituzione. Bene. Sono contento.

L’articolo, poi, continua così:

l’organizzazione della scuola, anche dal punto di vista delle rette, deve essere tale “da preservare senza alcun dubbio la finalità non lucrativa”. Gli “avanzi” dunque non siano un “profitto” ma “sostegno direttamente correlato ed esclusivamente destinato alla gestione dell’attività didattica”.

Come si fa a definire tutto questo? Vanno gli ispettori del Ministero? Si controllano i bilanci delle scuole? Si manda l’Agenzia delle Entrate o la Guardia di Finanza con i cani lupo? O basta un’autodichiarazione di Bagnasco? Non so davvero. Io, come dicevo, non capisco.

Più avanti nell’articolo, però, leggo una dichiarazione della CEI, che mi pare abbia capito tutto e subito: “Le dichiarazioni di Monti vanno nella direzione giusta, quella portata avanti anche in Europa. Scuole e oratori sono attività no profit e non ha senso tassare attività che hanno chiara rilevanza pubblica e sociale”. Cioè: le scuole cattoliche non saranno tassate, come gli oratori e le chiese. Fine del problema. Amen.

Il significato dell’esistenza

Quando hai lasciato agli altri i destini del mondo  a te resta tutto il bello della vita (C.F. 1926-2012)

In un lungo necrologio Nello Ajello, immagino con una certa cognizione di causa, ricorda Carlo Fruttero come un uomo ha sempre schivato con una coerente “scelta antiretorica e antifilosofica” di porsi “le domande ultime”, uno che ha vissuto la vita con un misto di cinismo, ironia e disincanto e ha affrontato la morte come “un laico nel senso più pieno del termine”. Mi sono detto: ora io non so di preciso cosa significhi essere laico, né conosco abbastanza Fruttero da poter dire se è vero che non si sia mai posto “le domande ultime”; so solo che imparare a non porsele sembrerebbe un esercizio al di fuori della mia portata.

Oggi, poi, che ho letto in classe il finale del Dialogo di Tristano e di un amico, e mi sono ancora una volta stupito della lucidità con cui guardava alla morte uno che le domande ultime se le era poste tutte, e si era dato anche le sue risposte.

E di più vi dico francamente, ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. Né vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismentirà le mie parole; perché quantunque io non vegga ancora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimento dentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico non sia lontana.

Poi, nella stessa pagina, leggo (in un articolo di Antonio Gnoli che non trovo in rete, qui un estratto) alcune frasi di un Fruttero vecchissimo, già orfano di Lucentini: “La vecchiaia è un aggiustamento continuo con cacciavite e chiave inglese. Tiri avanti. Anche la morte di Franco l’ho dovuta mandar giù e adesso quando scrivo, quando penso è come se mi sdoppiassi. Cerco sempre di vedere con il suo occhio quello che faccio”. E ancora: “(la morte) Non mi fa paura, ho un po’ d’ansia per il fatto che al momento possa soffrire e dopo non so. Con Franco discutevamo della morte. Lui diceva: guarda Carlo non se ne può parlare in senso proprio. Va considerata come un viaggio. Ecco stiamo a vedere come sarà questo viaggio. La morte è inverosimile. Perché quello che succede dopo non è raccontabile. E allora, fino a quando non senti bussare i primi colpi non ci credi, non ti sembra possibile”. Ecco: laico e pieno di pietas, non certo estraneo alle domande ultime, alle quali nessun uomo può veramente sentirsi estraneo.