Ho visto Bella addormentata la sera in cui è uscito nelle sale. Anzi: la sera prima, perché il multisala dove ero andato per vedere l’ennesimo film sulla scuola aveva deciso di anticipare di un giorno la proiezione dell’opera di Bellocchio. Questo non significa che l’abbia visto per sbaglio: ci sarei andato comunque e comunque prima possibile, perché il tema mi è sempre stato molto caro, perché Bellocchio è un regista che non sempre capisco ma che sempre mi interroga, e anche perché Bella addormentata è uno di quei film che quando l’hai visto poi hai qualcosa di cui parlare con gli amici per qualche mese almeno. Ci sarei andato lo stesso, dunque, ma il contrattempo ha avuto, in ogni caso, delle conseguenze sulla visione, per due motivi. Primo motivo: non ero assolutamente preparato al film; né la ragione né le emozioni erano state allertate, e sono stato catapultato in un mondo che non era quello che pensavo avrei abitato quella sera. Secondo motivo: andavo al cinema con una compagnia un po’ diversa dal solito; si doveva vedere un film sulla scuola e stavo, guarda caso, fra insegnanti; e nella compagnia c’era un fervente cattolico molto attento all’ortodossia, e una donna appena reduce da un lutto, costretta a sperimentare sulla pelle di una persona cara la brutale concretezza di espressioni apparentemente algide come “interruzione dell’accanimento terapeutico”. C’erano, dunque, le premesse per un’esperienza forte. E tale è stata, in effetti.
A me, tanto vale dirlo subito, il film è piaciuto moltissimo. Anzi: pur nella imperfezione di tanti aspetti singoli, mi è sembrato un film perfetto. Spiego: Bellocchio secondo me si è fatto carico di una sfida quasi impossibile: trattare in un’opera d’arte un caso umano (o di cronaca, o politico, o giudiziario, o culturale, o non so come altro definirlo) così tormentoso e complesso come quello di Eluana Englaro, e del filo di vita e di morte che l’ha legata per tanti anni al padre Beppino (e non solo a lui). Era, obiettivamente, qualcosa di difficilissimo. Fra i pericoli dell’apologo morale da una parte e dell’estetica da fiction dall’altra, non c’erano molte strade, forse una soltanto, e quella strada secondo me Bellocchio l’ha saputa percorrere. Per questo dico che è un film perfetto, perché è forse l’unico film che su questo tema si potesse fare. Per realizzarlo Bellocchio non solo ha tolto il corpo e i volti dei protagonisti veri dalla scena (scelta per tanti versi necessaria); ha anche riempito il film – come è nella sua poetica – di personaggi che non si preoccupano mai di sembrare realistici ma che sono, nella trasfigurazione dell’arte, sempre (o almeno: molto spesso) veri. Sono personaggi esagerati, spesso nevrotici, a volte disturbati e disturbanti, sempre terribilmente inquieti e fragili di fronte ai problemi ultimi. Ritratti deformati di tutti noi, alla fin fine.
Accanto a questo, c’è anche un discorso sulla società. Non propriamente un discorso politico, ma sulla crisi di cultura e di umanità che attanaglia il nostro vivere di italiani di oggi, e che trova nella politica, se non altro, uno specchio. Partiamo da un dettaglio, che poi tanto dettaglio non è: molti dei personaggi del film sono costretti dal regista a fare i conti con la presenza ossessiva di schermi televisivi che proiettano le loro luci livide e spettrali su corpi, volti, oggetti. In una scena misteriosa e affascinante due uomini (un fratello, un padre) completamente proiettati su sé stessi, sulle loro ambizioni e sulle loro sconfitte, anche di fronte al coma della sorella, alla follia della moglie, rimangono attoniti a guardare su uno schermo enorme le evoluzioni sottomarine di giganteschi e inquietanti ippopotami. Ma è soprattutto nelle stanze della politica – attraversate dal sempre bravissimo Toni Servillo – che la televisione è onnipresente. Nell’era berlusconiana (di cui il film compone il ritratto più convincente che mi sia stato dato di vedere) la televisione è onnipresente, dalle stanze del potere all’ultimo tinello: in ogni stanza del Palazzo vengono trasmessi i tg o i discorsi dei parlamentari (quasi a dire che tali discorsi hanno ragion d’essere solo se teletrasmessi); persino nel surreale bagno turco che è teatro di alcune fra le scene più riuscite del film (ad esempio l’ormai noto dialogo fra il Senatore-Servillo e lo Psichiatra-Herlitzka) c’è sempre uno schermo su cui scorrono informazioni relative ai lavori dell’Aula; in un’altra scena i politici di Forza Italia si fanno una foto, ma i loro veri volti sono oscurati dalla proiezione di un filmino propagandistico. Fino ad un momento che m’è parso geniale: un personaggio sta per entrare nell’Aula del Parlamento, e sta davanti ad una grande ed elegante porta di legno, la porta si apre e dentro si vede, invece dell’aula, una riproduzione video (piuttosto sgranata) della stessa.
Il film mi pare, insomma, la metafora di un paese che ha perso la sua umanità, senza guida etica e morale; la massa imbestiata dal rincitrullimento televisivo, gli individui lasciati soli con le loro cose e le loro idee, le loro idiosincrasie, le loro nevrotiche paure. Non mi è sembrato, invece, un film (solo) sui problemi etici, tanto meno un film che su quei problemi vuole dirci la sua verità, o darci la sua ricetta. Forse ci chiede solo, in assenza della struttura etica e politica necessaria ad un paese per affrontarli con serenità, di non strumentalizzarli a fini di parte.
Mi pare anche che sia un film sui confini, e sulla loro essenza labile, equivoca. Le cose, lì sul bordo, non sempre sono semplici e chiare, e non sempre sono quel che sembrano. Di fronte a quel tremendo e intimo momento in cui un essere umano smette di vivere, be’, dire qualche verità assoluta è molto rischioso, e evitare equivoci non è facile. In conclusione, dopo il film mi viene da ribadire ancora una volta quel poco che da tempo sostengo, su questi argomenti: come sembra volerci dire anche l’epilogo della vicenda umana del Cardinale Martini, quei momenti non possono essere di altri che del morente e di chi, con lui, ha condiviso una vita di legami e di affetti. E nessun potere, politico o religioso, può rivendicare la proprietà e la giurisdizione su quel territorio.
Dopo aver visto il film, ho letto qualche recensione (non molte in verità). Fra tutte mi ha stupito quella, inutilmente livorosa (fin dal titolo) e priva di qualsiasi empatia artistica, di Michela Murgia, che legge il film solo con gli occhi delle categorie politico-religiose (cattolici e laici, radicali e clericali…), senza nessuno sforzo per cercare di entrare nel mondo del regista. Ha dell’incredibile, se penso che la Murgia è l’autrice di Accabadora, libro che ho amato molto, e molto ho raccomandato proprio per la sensibilità con cui accosta temi complessi quali l’eutanasia. Comunque ho capito che con i consigli di lettura e di visione dell’autrice sarda devo andarci molto cauto: una sua prefazione al romanzo L’ultima tentazione di Cristo, anticipata sul suo blog (e che mi era piaciuta parecchio), mi ha già spinto, l’estate scorsa, ad una delle letture più faticose e aride degli ultimi anni: quello di Kazantzakis è un libro noioso, di troppe pagine e di poche idee, che non merita certo i soldi necessari ad acquistare la ristampa niente affatto economica prefata dalla Murgia. Ve lo dico: sono soldi sprecati: usateli piuttosto per andare a vedere il film di Bellocchio; e vi resteranno anche gli spiccioli per i popcorn.
Molto bella, invece, la recensione di Gianluca. Anche se forse non è bello citarsi a vicenda…
Se poi volete la recensione di un critico cinematografico vero…
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