(attenzione, qui sotto vi racconto praticamente tutta la trama di E’ stato il figlio)
In un Meridione d’Italia grottesco e metafisico vive la famiglia Ciraulo, che si barcamena raccattando rottami in un cimitero di navi reclinate e arrugginite. Intorno i simboli di una miserevole decadenza: lo Zen di Palermo e le ciminiere di Taranto sembrano ritrovarsi insieme in una foresta di simboli. Sulla piazza del quartiere, dominata dalla Morte Nera e dove l’Innocenza Bambina viene emarginata, esclusa, una mafia sbadata uccide la figlia più amata di Nicola, a cui rimane solo l’altro figlio, Tancredi: inconcludente, sognatore; in fondo inutile. Per la morte della piccola lo Stato riconosce un indennizzo alla famiglia, ma è una snervante trafila di orrendi avvocati e burocrazia viscida e sfuggente: quando arrivano i duecento milioni molti se ne sono già andati in debiti e usura. Il resto, Nicola lo spende, inopinatamente, per la macchina, per la Mercedes, per far vedere a tutti che non è più un poveraccio, e per dare al suo amore un nuovo e più rassicurante oggetto. Ma Tancredi, in una triste notte brava col cugino mafioso di quartiere, fa un graffio alla Mercedes. Da quel graffio la storia prende velocità: il padre si scaglia con violenza animale sul figlio, la madre chiama in aiuto il cugino mafioso che spara allo zio: Nicola muore nell’incredulità sua e di tutti. Interviene la nonna, figura finora marginale, che decide il da farsi: la colpa non ricadrà sull’uccisore, l’unico che con le sue attività criminali può garantire la sopravvivenza di tutti, ma sull’inetto Tancredi, che si farà il carcere al posto del cugino, e tornerà poi, dopo anni, nella casa vuota che fu della sua famiglia, pieno di ricordi e di storie che solo i sordomuti stanno ad ascoltare. Sulla piazza è rimasta solo una chiazza rossa di sangue, contemplata dall’Innocenza Bambina, muta ed impotente.
Al centro di tutto quella Macchina, la ricchezza ostentata delle anime straccione e miserabili. La scena di quella sera con i mucchi di banconote sul tavolo e ogni membro della famiglia a proiettarvi i suoi sogni di consumatore acerbo e sbandato.
Io, lo confesso, conosco fin troppo bene questa fame di riscatto del povero, del mentecatto che arriva a potersi permettere un simbolo di lusso, magari in mezzo al niente del resto della sua vita, e su quel lusso proietta un riscatto sociale in realtà effimero e, in definitiva, avvilente. E’ quel fenomeno che ha corrotto la civiltà contadina da cui provengo, e che la spirale consumistica degli anni Sessanta-Ottanta (e oltre) ha finito di distruggere, a poco a poco (cfr. Pasolini). Vengo da una famiglia che andava al mare con la Cinquecento e l’ombrellone arrugginito, negli anni Ottanta, e quando lo Stato ha indennizzato le nostre vite perdute con un po’ di soldi a debito (per fortuna non ci sono voluti dei morti, ma forse anche quella bambina morta del film va letta come un simbolo) abbiamo proiettato emozioni, sogni e fantasie sulle cose, perdendo un sacco di tempo e di energie che potevamo meglio usare per curare gli affetti e le persone. Questa sbornia poi, almeno per me, in larga parte è passata, ma restano le macerie, e il tarlo di aver regalato al Dio delle Cose una parte troppo grande di noi.
Mi pare di ritrovare nell’ultimo paragrafo lo stesso tema del post che inaugurò questo blog: forse nel film si parla di una cosa un po’ diversa, dal momento che lì i soldi arrivano improvvisi e devastanti come una bomba, e come una bomba spariscono immediatamente lasciando solo morti e macerie; invece tu parli di un progresso economico (innegabile e benedetto, direi – sai che non mi iscrivo al partito dei pauperisti a tutti i costi) che evidentemente non si è accompagnato ad un progresso culturale equivalente, e anzi ha finito per viziare il tessuto sociale preesistente. In entrambi i casi, e qui convengo, si è finito per dare agli oggetti sempre più importanza, a farne spesso il fine e non il mezzo, nel caso del film senza risolvere la miseria (materiale e morale) in cui si era immersi, nel caso di cui parli tu generando un’onda lunga (che ovviamente riguarda anche i nostri anni) di rincorsa consumistica difficile da gestire (forse solo la crisi ci sta imponendo qualche freno).
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Confesso che con l’ultimo paragrafo sono andato a trovare nel film un ulteriore livello di simboli che forse non c’era e che ci ho visto solo io, ma come si sa chi cerca trova sempre, quando si tratta di interpretazioni di opere artistiche. Io credo che, nel film, il fatto che i soldi arrivino improvvisi non sia un elemento determinante: è quello che enfatizza il grottesco e l’assurdo, ma secondo me l’arricchimento della famiglia Ciraulo avrebbe avuto lo stesso effetto anche in altre circostanze: in fondo quei soldi non arrivano poi così tanto veloci, e nella scena che ho già richiamato delle banconote sul tavolo l’argomentazione ultima con cui Nicola stabilisce che si sarebbe comprato ‘o Mercedes è che lui è l’unico che in famiglia lavora (la reale provenienza di quei soldi ormai per lui non conta più, conta solo la loro disponibiltà); inoltre, nel dire che la comprerà per far vedere a tutti che ormai è ricco c’è un calcolo di tipo socio-simbolico, magari sbagliato ma con una sua coerenza, in quel mondo.
Ultima cosa sul progresso economico, che – convengo – è una cosa bella, come lo è il progresso in generale invece del regresso. Va stabilito però se quello che ci ha permesso dagli anni Ottanta in poi di avere qualche sicurezza e di toglierci tante svogliature sia stato un progresso vero o un’illusione; o – peggio – una truffa.
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Che a Nicola la provenienza di quei soldi non interessi è verissimo (fin da subito non gli interessa che provengano dal sangue della figlia); ed è verissimo che con o’ Mercedes vuole dimostrare a tutti di essere ricco. Però è altrettanto vero, come dicevo, che i Ciraulo restano miserabili, moralmente (e questo si sa) ma anche economicamente, tanto che devono aggrapparsi alle promesse di Tommaso; e questo contrariamente al progresso di cui parlavo io (quello che citavi tu – quello degli anni sessanta-ottanta, quello di cui parla Pasolini), che insieme a tante storture e a tante contraddizioni, ha comunque portato un innalzamento nelle condizioni di vita generali, o almeno credo.
Poi, alla fine del commento, parli del periodo dagli anni Ottanta in poi, e lì in effetti il discorso cambia.
(rileggendo, mi pare che nel mio inciso sul progresso e il paupersimo si possa leggere un che di polemico, che ovviamente – penso tu lo sappia, ma non si sa mai – non era nelle intenzioni)
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In effetti avrei dovuto distinguere con più chiarezza quel che è successo negli anni Sessanta e Settanta (che conosco per sentito dire) da quel che ho vissuto poi.
(ma figurati!)
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