Sulla strada di casa

Oggi è un bel giorno, (non solo perché Bob Dylan ha vinto il Nobel per la letteratura ma anche) perché esce nei cinema (qui la programmazione nelle sale marchigiane, e si spera presto anche in giro per l’Italia: lunedì prossimo, 17 ottobre, a Recanati) Homeward Bound – Sulla strada di casa, il film che Giorgio Cingolani e Claudio Gaetani hanno realizzato insieme ai giovani che abitano all’Hotel House di Porto Recanati.

Un film che prima di essere un film è stato (ed è) un progetto sociale, di integrazione e di scambio, e un progetto di ricerca su una piccola realtà di provincia che si confronta col mondo. Un progetto che non nasce dal buonismo un po’ peloso che tante volte azzoppa i lavori culturali legati all’emigrazione, ma dalla disponibilità di due intellettuali di spessore disposti a mettersi davvero in relazione con persone in carne ed ossa, e con le loro storie. Io, che ho guardato (anche se da lontano, con discrezione) il progetto nascere (come corso di cinema) e poi crescere e poi diventare adulto, ho avuto modo di osservare che il rapporto tra i registi e gli attori è maturato nel tempo, fino alla condivisione, alla fiducia, all’amicizia. E nel film questo si vede: empatia umana e tensione etica si sostengono a vicenda, e sostengono ogni scena del film.

C’è una foto, scattata durante le riprese, che secondo me esprime perfettamente tutto questo, e allora la ripubblico, anche se già l’avevo messa in un altro post di tuttequestecose:

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Insomma, hanno proprio ragione quelli di Cineforum a dire che “siamo di fronte ad un film necessario”. Un film, aggiungo, che è un dovere sostenere, in primo luogo andandolo a vedere al cinema!

Questi giorni

 

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Maria Roveran e Marta Gastini in Questi giorni

Domenica 25 settembre, metà pomeriggio. Non è il momento migliore per presentare un film ad Ancona: la gente percepisce che questa è forse l’ultima domenica dell’anno in cui si sente ancora l’odore dell’estate, e passare un pomeriggio al buio di una sala cinematografia a molti non deve essere sembrata una buona idea. Così, ad accogliere il regista che viene a presentare il suo nuovo film, non si può certo dire che ci sia il pubblico delle grandi occasioni.

Però i non molti presenti possono ascoltare un uomo timido, e – sotto la sprezzatura – raffinato, che ti accompagna dentro al film con un discorso semplice e profondo basato su due concetti: uno, che il vero realismo non è provare a fotografare la realtà così come appare, ma coglierne il senso profondo (avrà mica letto Siti, il regista?); due, corollario del primo ragionamento, che il rapporto fra verità e finzione al cinema è rovesciato: la verità puoi coglierla solo portando all’estremo la finzione, la costruzione fittizia. Guai, per un attore e per un regista, provare ad “essere naturale” sulla scena o dietro la cinepresa. Continua a leggere

Julieta

Un po’ di tempo fa ho visto Julieta, un film di Pedro Almodovar tratto da un bel libro di Alice Munro, che in italiano si intitola In fuga. Un film, secondo me, che regala alcune scene davvero belle (quella dell’accappatoio, in cui si gestisce magistralmente il sempre difficile passaggio di consegne fra l’attore che interpreta il personaggio giovane e quello che lo interpreta anziano) e soprattutto con uno sguardo sull’umanità consolante ma non consolatorio.

Riflettevo, uscito dal cinema, su quanto sarebbe bello che più spesso nella vita si incontrassero persone simili a tanti dei personaggi di questo film: capaci di volere bene, di perdonare, di non diventare ciechi per gelosia e desiderio di possesso; e persone che sappiano anche accettare negli altri scelte diverse, diversi modi di amare.

I melodrammi di Almodovar sono sempre un inno alla comprensione e all’accettazione, dell’altro e della vita. Purtroppo, con tutta evidenza, c’è in giro un sacco di gente che non guarda i film di Almodovar.

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Mon oncle

Per fortuna, mi dico a volte, che ho una cultura molto limitata, e delle lacune totali su alcune espressioni artistiche, momenti e personaggi fondamentali. Questo mi permette, sulla soglia dei quarantaquattro anni, di vivere esperienze estetiche completamente nuove e totalizzanti come si mi affacciassi al mondo (o almeno a quel singolo pezzo di mondo che è l’espressione artistica in questione) per la prima volta.

Per esempio, in vita mia non avevo mai visto un film di Jacques Tati, e l’altra sera sono finito quasi per caso a vedere Mon oncle, film girato da Tati nel 1958, nella mia sala cinematografica preferita (per la cronaca: il Cinema Azzurro di Ancona): una festa dell’intelligenza, dell’ironia e della bellezza, questo mi è sembrato Mon oncle. Evviva l’ignoranza, dunque, che rende possibili le feste.

Qui sotto, la scena che più mi ha incantato:

La pazza gioia

990x659xla-pazza-gioia-pagespeed-ic-zbfss3xmrdCosa mi piace del cinema di Virzì? Prima di tutto i personaggi, sempre piuttosto complessi e molto credibili rispetto agli standard della commedia italiana di oggi; e, in stretta relazione a questo, il lavoro sugli attori (è tanto bravo è spremere da loro il massimo che certe volte stenti a riconoscerli; vabbè, il caso Ferilli è esemplare). Poi la sua capacità di raccontare l’Italia. E la scelta consapevole e coerente di mettersi – unico capace di farlo bene – nel solco della grande commedia all’italiana di Scola e Monicelli. E poi mi piace anche il coraggio di fare sempre film politici senza esagerare con la retorica, ma anche senza tentennamenti e senza concessioni allo spirito dei tempi. Continua a leggere

Un bacio

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Domenica scorsa, 3 aprile, allo spettacolo dell’ora di cena, in una grandissima e semivuota sala del Goldoni abbiamo visto questo film italiano che ci è piaciuto molto: Un bacio, di Ivan Cotroneo (primo film che mi capitava di vedere di questo regista).

E’ la storia di tre ragazzi di sedici anni, tutti e tre emarginati: Lorenzo, un vulcanico, vitalissimo omosessuale orfano e appena adottato dopo mille peregrinazioni; Blu, una ragazza bella, sensibile e musona che è da tutti additata come la troia; Antonio, un ragazzo timido, bravo solo a pallacanestro, bocciato, traumatizzato dalla perdita dell’amatissimo fratello in un incidente stradale.

Fra i tre nasce una strana e intensissima amicizia fra sfigati, commovente nei momenti più solari, incasinati e felici, ma destinata a complicarsi terribilmente.

Gli attori protagonisti sono magnifici, soprattutto l’esordiente interprete di Lorenzo, Rimau Grillo Ritzberger. Il regista molto bravo a tenere il ritmo e soprattutto consapevole di quel che sta costruendo, facendo reagire Fate ignoranti Jules et JimMilk e… Mika!

Del suo approccio mi sono piaciute soprattutto due cose: la prima è che prova a trattare con rispetto e amore il mondo adolescenziale, senza sopraccigli inarcati e senza moralismi: avere sedici anni è complicato, e se sei un frocio, una puttana, un deficiente lo è molto di più, ma in ogni caso se hai sedici anni non sei un bambino e non vai trattato come un bambino: Cotroneo non lo fa: sta dalla loro parte; loro – ci ricorda – sono il futuro, e quindi non stiamo qui tanto a menarcela, noi adulti, per favore, con i nostri “ai miei tempi”!

Seconda cosa: trattando argomenti come omofobia e bullismo, l’autore sa benissimo che la strada verso la loro sconfitta è lunga e tortuosa; e non siamo vicini al traguardo, nemmeno un po’. E sa che una certa maggiore libertà di esprimere il proprio essere, oggi presente almeno in alcuni ambienti, non è un traguardo raggiunto, ma un punto di partenza, perché questa espressione libera di sé resta – per chi la esercita, come Lorenzo nel film – piena di rischi; il primo: quello di una reazione violenta di chi non ha gli strumenti psicologici e culturali per accettare davvero una diversità non più nascosta, segregata, rimossa. Questo è il punto in cui siamo e che il film fotografa (anche allo scopo di promuovere presso il pubblico giovanile la consapevolezza della necessità di ulteriori passi). Per questo motivo Un bacio, quasi in contraddizione con la scelta di un linguaggio apparentemente leggero, da commedia, non è per niente consolatorio, e ci sbatte in faccia senza pietà la durezza del mondo.

Un film da vedere, dunque, e che spero davvero tanto piaccia non solo agli adulti, ma anche agli adolescenti che lo andranno a vedere.

***

Uscendo dal cinema ho ripensato ad A., un mio alunno di tanti anni fa, che somigliava in tante cose a Lorenzo: come Lorenzo si vestiva e parlava in maniera strana, e gli piaceva ballare, magari sui banchi se ce n’era l’occasione. Non lo vedo da tantissimi anni, forse dalla sera che ci siamo salutati – un po’ teatralmente: lui era così – alla fine della terza media. Ma so che ha la sua vita, che è diventato un artista, e parla pubblicamente della sua omosessualità. Ogni tanto vedo le sue foto su internet, su facebook: è bello, quasi sempre sorridente, sembra felice. Ma so che niente è mai facile, per chi come lui e come Lorenzo vuole vivere la sua vita a modo suo, senza paura. Auguri, dunque, a tutti gli A. e a tutti i Lorenzo.

Brooklyn

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Il 27 marzo, giorno di Pasqua, in un cinema parrocchiale semivuoto di Ancona, allo spettacolo del tardo pomeriggio, abbiamo visto Brooklyn, un film di cui non sapevo nulla a parte quello che si poteva desumere dalla locandina: tre candidature all’Oscar (film, sceneggiatura, attrice protagonista) nessuna andata a buon fine, sceneggiatura di Nick Hornby, ambientazione d’epoca (una parte certamente a New York), e niente altro.

E’ stata una bella sorpresa, un film inatteso per la sua delicatezza, compostezza e – mi verrebbe da dire – classicità. Per come rinuncia a vezzi e colpi di scena inutili concentrandosi sul nocciolo della questione (una giovane donna di fronte a normalissime ma decisive scelte di vita); e per come riesce a farlo senza annoiare, anzi.

Bravissima la protagonista. Attento e onesto ma niente di più il regista. Quel satanasso di Nick Hornby ci mette molto del suo costruendo una sceneggiatura praticamente perfetta.

Per chi ha tempo, vale la pena di leggere leonardo, che come spesso gli capita coglie il punto. Locatelli un po’ più freddino.

Due film e la Shoah (più bonus)

Nell’ultima settimana ho visto due film che, direttamente o indirettamente, parlavano della Shoah: quest’anno (come ormai è consuetudine) nei dintorni del Giorno della Memoria ne sono usciti almeno quattro o cinque sul tema, e non ci stupiamo più, è diventato un sottogenere, con la sua nicchia di spettatori, le sue dinamiche, il suo mercato.

Se questa nostra epoca avrà un’epica, è molto probabile che sarà quella – senza eroi ma con moltissime vittime – che si fonda sul Paradigma Lager, per citare (forse in maniera un po’ inappropriata) il fortunato titolo di un libro troppo poco conosciuto; e una delle forme espressive privilegiate di narrazione di questa epopea è e sarà certamente il cinema (si veda, in proposito, almeno Il cinema e la Shoah di Claudio Gaetani). Sarà probabilmente – e mi verrebbe da dire purtroppo – un’epopea pop, succube per larga parte delle regole del mercato, ma questo è. Questo è il mondo che abbiamo.

lr-son-of-saul002I due film che ho visto sono molto diversi fra loro. Il primo è il celebratissimo Il figlio di Saul, che ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, e che è in effetti un film molto ben fatto, difficile e coraggioso. Racconta la storia di un membro del Sonderkommando (e già questo…) che crede di riconoscere in un ragazzino ucciso nelle camere a gas suo figlio (un ragazzino che, tra l’altro, non muore col gas – caso raro ma attestato anche ne I sommersi e i salvati – e viene soppresso successivamente dai medici nazisti), e a tutti i costi – letteralmente – vuole dargli una sepoltura degna. La forza del film sta nelle calibratissime scelte estetiche (in primis quella di stare con la telecamera appiccicata al volto o alle spalle del protagonista, indagando il mistero di come un uomo possa fare quel disumano lavoro in quella disumana fabbrica, lasciando ai contorni e allo sfondo l’orrore descrittivo degli umani uccisi, dei corpi soppressi trascinati e distrutti), che si esprimono al meglio nella prima mezz’ora di film. La storia, invece, con tutti i suoi sottotesti simbolici (il costo della testimonianza, la distruzione dell’innocenza, tutto il discorso su Padri e Figli e chissà quante altre cose che non ho capito), invece di sostenere il film, lo appesantisce e alla fine lo depote
nzia.

In definitiva, nella forza del film sta anche la sua possibile debolezza: è un film fin troppo ben fatto, fin troppo consapevole, fin troppo ricco e fin troppo riuscito. E’, insomma, nell’evoluzione di quel particolare genere epico di cui sopra, un esempio di manierismo, con tutto quel che ne consegue nel bene e nel male.

L’altro film è quanto di più diverso si possa immaginare: Una volta nella vita (ancora una volta una brutta traduzione di un titolo originale molto più bello: Les héritiers) infatti non racconta il lager, ma la sua memoria nella scuola di oggi. E’ la vicenda – ispirata ad una storia vera, ma trattata come una sorta di favola problemat5-lesheritiers-guyferrandisica ed edificante – di una sgangheratissima classe multietnica di un liceo della periferia di Parigi che trova la sua dimensione e la sua identità partecipando – guidata da una prof minuta, autorevole e molto umana – ad un concorso nazionale sui temi della Resistenza e della Deportazione.

Il film, per quanto didascalico e prevedibile, a me è piaciuto: offre molti spunti di riflessione (in primo luogo su quanto il Paradigma Lager abbia da dire sui problemi della convivenza nelle nostre città multietniche), è girato con un linguaggio semplice e realistico, recitato bene sia dai ragazzi che dall’attrice che interpreta la prof. Un film sulla scuola e sulla memoria che sarebbe giusto far vedere nelle scuole (anche se c’è il dubbio che possa piacere più agli insegnanti che ai ragazzi).

***

Poi sono anche andato a vedere il famoso Jeeg, di cui tutti mi avevano parlato bene, anzi benissimo. In effetti è un un bel film, originale e coraggioso, che sicuramente rappresenta un’ottima notizia per il cinema italiano. A me, fra le varie cose, è piaciuta particolarmente l’ambientazione borgatara e il personaggio, svalvolatissimo ma così tenero ed empatico, di Alessia.

Ingrao ergo sum

Stasera Holliwood Party ha dedicato uno spazio a Pietro Ingrao, che compie cento anni oggi, essendo nato il 30 marzo 1915, quando l’Italia non era ancora entrata in guerra. La prima. Fra una sosta e l’altra, in auto, con il segnale che andava e veniva, ho colto le seguenti due note.

Negli anni della cospirazione antifiascista, Ingrao come copertura scriveva soggetti cinematografici tratti dalle novelle di Verga (collaborava con Visconti, che all’epoca gli appariva come un bizzarro aristocratico in fissa col cinema (”Ma tutti eravamo convinti di capirci molto più di lui, in fatto di cinema”). Comunque questi cospiratori comunisti che, negli anni in cui si preparava la Resistenza, erano in grado di riscoprire la grandezza di quel grande conservatore siciliano capace come nessun altro di raccontare l’epopea dei vinti, mi commuovono.

Poi un tizio raccontava che c’è stato un momento in cui girava il motto “Ingrao ergo sum”, che è bello di suo, ma più bello se si scioglie l’acronimo “sum”, che stava per “senza utopia mai” o, a scelta, “senza umanesimo mai”.

Buon compleanno, vecchio!

Take me home

Riprese-sul-tetto-dellHotel-House

Che poi con Claudio (dopo la sua lezione in cui ci ha parlato di paprika, intrighi internazionali e giovani Sherlock Holmes, ma sempre e rigorosamente in chiave onirica) al Passepartout ci siamo andati davvero! E siccome non vogliamo farci mancare niente, con noi c’erano anche Elena e Giorgio.

Elena è Maria Elena Fermanelli, che è consigliere con delega alla solidarietà e all’integrazione di Porto Recanati (e ha ottenuto recentemente il bel risultato dell’istituzione della Consulta dei Migranti nel suo comune). Giorgio è Giorgio Cingolani, che è artefice, con Claudio e altri, di un progetto che merita di essere conosciuto da tutti, e approfitto per segnalarlo. Giorgio, che di mestiere fa l’antropologo e il documentarista, già autore di un bel documentario su quella straordinaria (in senso letterale) realtà che è l’Hotel House di Porto Recanati, ha avuto l’idea di realizzare un laboratorio di introduzione al cinema con i ragazzi che in quell’esplosivo serbatoio di vita e di esperienze nomadi e diversissime vivono, e di fare poi con questi stessi ragazzi un film. Il tutto senza l’aiuto di nessuno: senza un’istituzione, un progetto comunale o europeo, uno straccio di sponsor. Insomma: senza una lira; ma anche con tutta la libertà di questo mondo.

Ora il film, che si chiama Homeward bound come una canzone di Simon & Garfunkel, è quasi pronto, e aspira a girare il mondo proprio come sono abituati a fare il suo regista e i suoi protagonisti (qui altre informazioni). Lavorare insieme, tirare fuori i talenti di ognuno, raccontarsi e confrontare le proprie storie con quelle degli altri, sono i migliori antidoti alla xenofobia, e Homeward bound fa proprio questo, e tutti a mio avviso dovrebbero essere grati al lavoro di chi lo ha reso possibile.

Update: mi dicono che è iniziata proprio oggi una campagna di crowdfunding per finanziare il completamento e la distribuzione del film. Io un piccolo contributo l’ho dato: datevi da fare anche voi!!!