Nell’ultima settimana ho visto due film che, direttamente o indirettamente, parlavano della Shoah: quest’anno (come ormai è consuetudine) nei dintorni del Giorno della Memoria ne sono usciti almeno quattro o cinque sul tema, e non ci stupiamo più, è diventato un sottogenere, con la sua nicchia di spettatori, le sue dinamiche, il suo mercato.
Se questa nostra epoca avrà un’epica, è molto probabile che sarà quella – senza eroi ma con moltissime vittime – che si fonda sul Paradigma Lager, per citare (forse in maniera un po’ inappropriata) il fortunato titolo di un libro troppo poco conosciuto; e una delle forme espressive privilegiate di narrazione di questa epopea è e sarà certamente il cinema (si veda, in proposito, almeno Il cinema e la Shoah di Claudio Gaetani). Sarà probabilmente – e mi verrebbe da dire purtroppo – un’epopea pop, succube per larga parte delle regole del mercato, ma questo è. Questo è il mondo che abbiamo.
I due film che ho visto sono molto diversi fra loro. Il primo è il celebratissimo Il figlio di Saul, che ha vinto l’Oscar come miglior film straniero, e che è in effetti un film molto ben fatto, difficile e coraggioso. Racconta la storia di un membro del Sonderkommando (e già questo…) che crede di riconoscere in un ragazzino ucciso nelle camere a gas suo figlio (un ragazzino che, tra l’altro, non muore col gas – caso raro ma attestato anche ne I sommersi e i salvati – e viene soppresso successivamente dai medici nazisti), e a tutti i costi – letteralmente – vuole dargli una sepoltura degna. La forza del film sta nelle calibratissime scelte estetiche (in primis quella di stare con la telecamera appiccicata al volto o alle spalle del protagonista, indagando il mistero di come un uomo possa fare quel disumano lavoro in quella disumana fabbrica, lasciando ai contorni e allo sfondo l’orrore descrittivo degli umani uccisi, dei corpi soppressi trascinati e distrutti), che si esprimono al meglio nella prima mezz’ora di film. La storia, invece, con tutti i suoi sottotesti simbolici (il costo della testimonianza, la distruzione dell’innocenza, tutto il discorso su Padri e Figli e chissà quante altre cose che non ho capito), invece di sostenere il film, lo appesantisce e alla fine lo depote
nzia.
In definitiva, nella forza del film sta anche la sua possibile debolezza: è un film fin troppo ben fatto, fin troppo consapevole, fin troppo ricco e fin troppo riuscito. E’, insomma, nell’evoluzione di quel particolare genere epico di cui sopra, un esempio di manierismo, con tutto quel che ne consegue nel bene e nel male.
L’altro film è quanto di più diverso si possa immaginare: Una volta nella vita (ancora una volta una brutta traduzione di un titolo originale molto più bello: Les héritiers) infatti non racconta il lager, ma la sua memoria nella scuola di oggi. E’ la vicenda – ispirata ad una storia vera, ma trattata come una sorta di favola problemat
ica ed edificante – di una sgangheratissima classe multietnica di un liceo della periferia di Parigi che trova la sua dimensione e la sua identità partecipando – guidata da una prof minuta, autorevole e molto umana – ad un concorso nazionale sui temi della Resistenza e della Deportazione.
Il film, per quanto didascalico e prevedibile, a me è piaciuto: offre molti spunti di riflessione (in primo luogo su quanto il Paradigma Lager abbia da dire sui problemi della convivenza nelle nostre città multietniche), è girato con un linguaggio semplice e realistico, recitato bene sia dai ragazzi che dall’attrice che interpreta la prof. Un film sulla scuola e sulla memoria che sarebbe giusto far vedere nelle scuole (anche se c’è il dubbio che possa piacere più agli insegnanti che ai ragazzi).
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Poi sono anche andato a vedere il famoso Jeeg, di cui tutti mi avevano parlato bene, anzi benissimo. In effetti è un un bel film, originale e coraggioso, che sicuramente rappresenta un’ottima notizia per il cinema italiano. A me, fra le varie cose, è piaciuta particolarmente l’ambientazione borgatara e il personaggio, svalvolatissimo ma così tenero ed empatico, di Alessia.