Bene, è un fatto: tuttequestecose stenta a ripartire. Un po’ perché sono stato travolto dall’allegra confusione di centocinquanta facce (quasi tutte nuove per me) che incontro ogni mattina a scuola. Un po’ perché è sempre difficile fare il primo passo dopo una lunga pausa. Comunque, visto che di giorni ne sono passati ormai molti di più dei 100 previsti inizialmente, cominciamo con le cose semplici, per esempio segnalando quel che succede in giro; per esempio questo, giovedì prossimo:
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Due o tre cose che ho imparato dal teatro (finora)
Come si è capito dagli ultimi post, negli ultimi giorni sono stato molto preso dalla conclusione del laboratorio teatrale sulla Gerusalemme Liberata di cui sono stati protagonisti i ragazzi dello scientifico di Macerata. Purtroppo io non ho mai fatto teatro in prima persona, la prima e l’ultima esperienza di attore credo sia stata in una recita in prima media, quando facevo Ulisse nella scena dell’incontro con Nausicaa, e visto che di Barbara, la compagna di classe che interpretava la figlia del re dei Feaci, ero anche un po’ innamorato, non so nemmeno se si possa dire che in quell’occasione io abbia veramente recitato. Comunque, poi la vita mi ha dato l’occasione di avvicinare questo mondo, da insegnante, organizzatore e responsabile di laboratori, e pian piano (grazie soprattutto all’amicizia e al “sodalizio” con Antonio Mingarelli) mi sono ritrovato a fare anche un po’ da sceneggiatore, un po’ da aiuto regista, sempre più “dentro” il meccanismo e sempre però anche con l’amara sensazione – di fronte ai ragazzi che andavano in scena – di essere “della razza di chi rimane a terra”. E, devo dire, ho imparato proprio tanto da queste esperienze, e mi sono innamorato di questo mondo, di un amore forte come solo certi amori impossibili possono essere. Continua a leggere
L’attesa
Istantanee
Lo stato dell’arte
Volevo parlarvi un attimo di Antonio e Anahì, che oggi sono andato a salutare prima che partissero per Milano.
Antonio è un regista teatrale, con cui lavoro da anni nelle scuole (e adesso un po’ anche fuori dalle scuole), giovane, geniale, incasinato quanto basta come deve essere un artista. E’ uno che prende ragazzi che non hanno mai fatto teatro e alla fine dell’anno gli fa fare delle cose straordinarie. Vede in una ragazza un mago, e lei diventa un mago; vede gli occhi di un adolescente e capisce a dicembre che dietro quegli occhi c’è l’attore che, a maggio, terrà in piedi tutto lo spettacolo. Antonio non lavora solo coi ragazzi, ma anche con i professionisti, e allora ogni suo lavoro diventa uno sguardo nuovo su un’opera.
Come tutti gli artisti, Antonio vede le cose prima che esistano.
Anahì l’ho conosciuta invece solo qualche giorno fa: è un’attrice, bellissima e bravissima. La sera del 25 aprile, con pochissimo tempo per provare, si è caricata sulle spalle le storie di decine di internate nei campi fascisti e le ha fatte magicamente rivivere. Tre giorni dopo, nelle case di terra di Ficana, è diventata per una sera una allucinata e tenerissima Antigone, ma è stata contemporaneamente anche Creonte, e anche Sofocle, e anche Anouilh, insieme a tutti i personaggi della storia. Anche lì senza niente o quasi che la aiutasse: il suo corpo, la sua voce, la sua fragile forza.
Come tutti gli artisti, Anahì fa esistere cose che prima non esistevano.
Sia Antonio che Anahì vengono da una delle più prestigiose scuole di teatro italiane; sia Antonio che Anahì hanno poco più di trent’anni e un grande talento; sia Antonio che Anahì, per quanto ne so, vivono una condizione lavorativa assolutamente precaria, come tantissimi giovani artisti di questo paese. Un paese dove le istituzioni si aspettano spesso che gli artisti lavorino gratis, e dove il pubblico spesso si aspetta che gli spettacoli non costino nulla. Come se chi fa, ad esempio, teatro, non abbia un affitto o un mutuo da pagare.
Oggi con Antonio e Anahì ci siamo presi un caffé insieme, abbiamo parlato di progetti futuri e delle difficoltà del loro lavoro; poi ci siamo salutati e loro hanno preso il treno per Milano. Ormai, dovrebbero essere arrivati.
Io sono rimasto qui, grato per la bellezza che le donne e gli uomini di teatro ci donano, amareggiato al pensiero di quanto un lavoro così prezioso sia spesso misconosciuto.
Internate
“Ieri sera alle ore 20 circa, la nominata in oggetto approfittando dell’assenza delle altre internate coabitanti con essa nella stessa camera, ingerì, a scopo suicida, una forte dose di “Veramon”. Alle ore 20.45 circa, l’internata […] trovò la [..] stesa sul letto senza parola e vide subito una lettera messa bene in vista sul panchetto che trovasi in mezzo alla camera e che funge da tavolo. Presala e visto che era indirizzata a lei, la lesse. Nella lettera […] le chiedeva perdono dell’atto insano compiuto, dicendo che non aveva più il coraggio di continuare una vita senza alcuna notizia dei propri cari e dei propri beni e senza danaro…”
Die Landung – Lo sbarco
Il 10 aprile ho assistito al Teatro Comunale di Porto San Giorgio alla prima di un monologo teatrale .
Die Landung – Lo sbarco (qui la pagina facebook) è il frutto del lavoro dell’attore Gian Paolo Valentini, della regista Elena Fioretti, dell’autore del testo Andrea Manciola, e racconta la strampalata e surreale – ma vera, verissima – spedizione di un drappello di austriaci sulle coste nei pressi di Ancona in piena Prima Guerra Mondiale.
La scelta di una storia bizzarra e marginale, lontana dal sangue e dal fango delle trincee, permette agli autori di utilizzare un tono tragicomico, a volte leggero, che sembra ispirarsi a Monicelli, anche se la tragedia – ovviamente – incombe sempre sullo sfondo.
L’assenza di carneficine e strazio permette di concentrarsi sulla vita delle persone, che cercano nonostante tutto di vivere una vita normale; sulla somiglianza e vicinanza sostanziale fra i soldati di entrambi i fronti – se togli di mezzo trincee e mirini; sullo strano e decisivo ruolo giocato dalla lingua italiana nella guerra con un nemico che controllava territori italofoni; sull’importanza, in quei frangenti, del caso, del “surreale” che irrompe nella realtà, permettendo che una possibile strage di bambini sia evitata, che un soldato austriaco possa andare a fare spesa di sapone e cioccolata ad Ancona nell’aprile del 1918.
Sono storie rare in tempo di guerra, ma Andrea, Elena e Gian Paolo hanno con coraggio scelto di raccontarci proprio questa vicenda. Non con intenti consolatori, o per rimuovere l’orrore. Credo l’abbiano fatto perché andavano in cerca di una piccola speranza, anche dentro quella tragedia epocale: la speranza di una convivenza possibile fra umani. E forse anche perché hanno intuito che raccontare sempre e comunque la storia con toni lugubri e moralistici rischia di allontanare dalla conoscenza invece di ravvivarla.
Una scommessa vinta, grazie ad una scrittura arguta, una regia pulita ed essenziale, una recitazione coinvolgente. E grazie anche, credo, al fatto che dietro al progetto ci sono molta passione e amicizia vera.
Per chi volesse, il monologo va di nuovo in scena domenica prossima, 17 aprile, ore 18, alla ex “Polveriera Castelfidardo” di Ancona (Parco del Cardeto). Ingresso libero.
“Bombe che scoppiano”
Sapete come vanno queste cose: uno legge in un post di un amico una frase che lo incuriosisce, si informa (ovvero, fondamentalmente, googla) e finisce che ci passa due ore.
Ieri sera è andata così, un’amica insegnante ha postato questa frase che Gramsci ha scritto quando faceva il critico teatrale per l’Avanti, relativa ad una commedia di Pirandello:
Luigi Pirandello è un «ardito» del teatro. Le sue commedie, sono tante bombe a mano che scoppiano nei cervelli degli spettatori e producono crolli di banalità, rovine di sentimenti, di pensiero.
Lì per lì, nemmeno mi ricordavo che Gramsci avesse fatto il critico teatrale, né avrei saputo dire che idea avesse di Pirandello (benché coevi, li avevo sempre tenuti, i due, in cassettini distinti), ma la frase mi ha incuriosito perché un po’ ambigua: Pirandello fa crollare la banalità, dice Gramsci, e va bene: ma che vuol dire che fa rovinare i sentimenti e il pensiero? Boh, andiamo a vedere.
Così ho scoperto (fate la prova) che mettendo la frase di cui sopra su google si trova qualche interessante saggio (uno di Camilleri), e soprattutto si possono comodamente leggere in questo sito tutte le cronache teatrali pirandelliane di Gramsci.
Così ho scoperto, anche, che Gramsci era spesso molto severo con Pirandello, ad esempio Così è (se vi pare) è stroncata senza appello. E le riserve sono continue. E ho scoperto anche che poi, in carcere, Gramsci scriverà (quando Pirandello sarà diventato molto fascista ma anche molto famoso) di aver capito fra i primi la grandezza del drammaturgo: “molto prima di Adriano Tilgher”, dice (piccole vanità di un carcerato, ma curiose…). E mi sono fermato un attimo anche a pensare alla strana immagine scelta da Gramsci per parlare di Pirandello: gli “arditi” e le bombe, gli scoppi i crolli e le rovine.
Ma poi lo sguardo mi è caduto sulla data di questi scritti. La frase degli arditi e delle bombe, ad esempio, è tratta da una recensione di Il piacere dell’onestà messo in scena al Carignano di Torino, del 29 novembre 1917. Era un giovedì.
29 novembre 1917. Cinque settimane e un giorno dopo la rotta di Caporetto (24 ottobre, mercoledì). Tre settimane esatte dopo la Rivoluzione d’ottobre (7-8 novembre, mercoledì e giovedì). E così, lo so che è stupido, mi sono messo a pensare come ad una cosa fuori dal mondo che la gente scrivesse commedie, andasse a teatro, scrivesse cronache teatrali e dibattesse della qualità letteraria degli scritti di Pirandello e delle capacità interpretative degli attori alla moda mentre quattrocento chilometri ad est una carneficina immane era in corso, e da quattro anni. E molte migliaia di chilometri ancora più a est cambiava il mondo.
Un Fenoglio a Villa Ficana
Il 26 aprile, sul far della sera, a Villa Ficana, un luogo per molti versi unico incastonato fra i palazzi della periferia nord di Macerata, nei pressi della chiesa di Santa Croce, succederà qualcosa di strano, e di bello. I personaggi di Una questione privata di Beppe Fenoglio (il più bel romanzo sulla Resistenza, proprio l’altro giorno messo in vendita dal Corriere della sera al prezzo di un cappuccino) prenderanno vita nei corpi, nelle voci e nei volti dei ragazzi e delle ragazze del Liceo “Galilei” di Macerata.
Fulvia, col suo vestito svolazzante e l’aria di chi la sa lunga, correrà fra i vicoli, quasi danzando sulle note di Over the rainbow, inseguita da Milton, sempre più angosciato e sempre più innamorato; tutt’intorno partigiani, contadine, ragazze e bambini a fare i conti con la tragedia della guerra; e, minacciose ad ogni angolo, le ombre dei neri, dei repubblichini, dei nazifascisti pronti a colpire coloro che avevano saputo per tempo capire quale fosse la parte giusta dove stare. Ma per i partigiani quell’ultimo inverno sarebbe stato anche il più difficile da passare. Un inverno interminabile come la quête di un amore assoluto e impossibile, affannoso come una lunga corsa fatta di incontri, sogni, duelli, epifanie e tragedie; una corsa all’ultimo respiro.
Presto, qui e altrove, informazione più dettagliate.
Recite
Da un po’ di tempo mi capita (è anche un piacevole effetto collaterale del mio lavoro) di andare più a teatro che al cinema. E mi è capitato di vedere delle cose molto belle che, se dovessero passare dalle vostre parti, vi consiglio di non perdere.
Furioso Orlando. Devo ammettere che avevo vaghi ma corposi pregiudizi su questo monologo (poi ho capito che proprio monologo non era) recitato da un divo del cinema. Mi chiedevo cosa portava un divo come Accorsi a cimentarsi in un’impresa di per sé ardua: portare a teatro il poema dell’Ariosto, che giusto Sanguineti e Ronconi… Vedendolo mi sono però fatto l’idea che forse ce l’ha portato l’umiltà di mettersi in gioco, e di faticare parecchio, perché non deve essere per niente facile – a parte la memoria – portare a spasso il pubblico fra tanti toni, personaggi e episodi diversi. Lo aiuta una grande spalla: Nina Savary, che, con il suo straniante accento francese non si limita a dare uno sfondo sonoro e musicale, ma fa da controcanto al testo, portando un sguardo femminile sulle vicende del Furioso che risulta illuminante e – direi – necessario (ma non diciamo troppo in giro che gli eroi di Ariosto sono maschilisti, che poi magari ci impediscono di leggerlo a scuola!). Il lavoro di sintesi e rielaborazione del testo del regista Marco Baliani è intelligente e efficace, divertente in alcuni azzeccati anacronismi e non privo di qualche attualizzazione “impegnata” che però non stona. Sia chiaro: non è una cosa “scolastica”, anche se – oltretutto – didatticamente è molto efficace.
Bottino di guerra. A proposito di pregiudizi: fino a qualche tempo ne avevo di grossi, grossissimi, sugli spettacoli teatrali amatoriali. Non so bene se perché li vedevo come occasioni di esibizionismo per ego ipertrofici o perché in fondo in fondo invidiavo il coraggio di chi faceva teatro per passione. Ma forse, alla fin fine, è la stessa identica cosa: i miei pregiudizi derivavano semplicemente da una lontananza, da una (auto)esclusione. Poi i casi della vita mi hanno portato a incrociare più da vicino queste esperienze, pur senza praticarle, è ho potuto sperimentare quanta emozione, tensione, forza c’era in queste serate di show fatti con pochi soldi e molto coraggio. Ora vado molto volentieri a vedere questi spettacoli: a volte, certo, la qualità dello spettacolo non è eccelsa, a volte l’organizzazione può essere abborracciata, ma arriva sempre un momento in cui senti quella vibrazione positiva, quella verità, che quando vai ad assistere ad uno spettacolo di professionisti non sempre percepisci. Poi, qualche volta, capita un piccolo miracolo, e tutto funziona alla perfezione. Per esempio la sera di venerdì 23 marzo ho rinuciato alla piscina e mi sono ritrovato con una quarantina di persone nelle grotte di un palazzo nobiliare di Tolentino, e lì sono stato catapultato con violenza in un mondo arcaico di guerra e di dolore declinato al femminile. Sono diventato partecipe della domanda: cosa succede ad una donna quando finisce una guerra? Lo spettacolo era tratto dalle Troiane di Euripide, e dal rifacimento delle medesime di Jean Paul Sartre, anche qui con qualche azzeccato inserto (su tutti, la straziante Sidun di Fabrizio de Andrè, che sembrava scritta apposta per quella storia). L’effetto è stato intenso e perturbante. Non so se siano previste repliche dello spettacolo, ma se lo trovate in giro approfittate. Disclaimer: una delle protagoniste (una delle più brave) è amica mia, ma non avrei scritto quello che ho scritto per amicizia, se non lo pensassi.
Il ventaglio. Ieri sera poi sono andato a vedere questa messa in scena di una commedia goldoniana. Non l’avevo mai letta né vista (c’ero andato vicino qualche tempo fa, ma poi avevo rinunciato), e non sapevo che aspettarmi. Avevo sempre visto un Goldoni piuttosto tradizionale, qualche volta vicino alla perfezione come nel caso della Trilogia della villeggiatura di Toni Servillo, ma ieri non ho certo rimpianto marsine e pizzi. L’idea di far reagire la lingua di Goldoni (mantenuta intatta) con le canzoni di Amy Winehouse e Lou Reed, con i costumi pop (per dire: le scarpe vanno dalle Converse alle Crocs) e i pennarelli fosforescenti, mettendoci in mezzo anche i sonetti di Shakespeare, qualche raccontino minimal e iperrealista, poteva sembrare azzardata. Però il regista ci ha messo molto del suo, a partire dall’aggiunta del personaggio di un Cupido che svolazza per la scena durante tutto lo spettacolo e rappresenta efficacemente l’incarnazione della funzione-amore che muove questa come tutte le commedie (e le vite) di questo mondo. Effetto finale: i ragazzi in età scolare presenti allo spettacolo (che ora, mentre scrivo, si sta replicando al Teatro Persiani di Recanati) hanno trovato Goldoni interessantissimo, spiritoso e brillante; e non si sono trovati per niente d’accordo con la matura signora del palchetto a fianco che – durante l’intervallo – chiosava scandalizzata “Io non ho mai visto uno scempio del genere”. Va bene così. Poi domani, a scuola, ci vengono a trovare gli attori della compagnia: che bello!