Due o tre cose che ho imparato dal teatro (finora)

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Come si è capito dagli ultimi post, negli ultimi giorni sono stato molto preso dalla conclusione del laboratorio teatrale sulla Gerusalemme Liberata di cui sono stati protagonisti i ragazzi dello scientifico di Macerata. Purtroppo io non ho mai fatto teatro in prima persona, la prima e l’ultima esperienza di attore credo sia stata in una recita in prima media, quando facevo Ulisse nella scena dell’incontro con Nausicaa, e visto che di Barbara, la compagna di classe che interpretava la figlia del re dei Feaci, ero anche un po’ innamorato, non so nemmeno se si possa dire che in quell’occasione io abbia veramente recitato. Comunque, poi la vita mi ha dato l’occasione di avvicinare questo mondo, da insegnante, organizzatore e responsabile di laboratori, e pian piano (grazie soprattutto all’amicizia e al “sodalizio” con Antonio Mingarelli) mi sono ritrovato a fare anche un po’ da sceneggiatore, un po’ da aiuto regista, sempre più “dentro” il meccanismo e sempre però anche con l’amara sensazione – di fronte ai ragazzi che andavano in scena – di essere “della razza di chi rimane a terra”. E, devo dire, ho imparato proprio tanto da queste esperienze, e mi sono innamorato di questo mondo, di un amore forte come solo certi amori impossibili possono essere.

E’ per questo che vorrei appuntare qui alcune cose che credo di aver imparato dal teatro, quest’anno e non solo. Parlo naturalmente del teatro che si fa e si può fare a scuola, ma forse alcune riflessioni possono valere anche più in generale.

Per prima cosa il teatro mi ha insegnato a fidarmi del talento degli altri, a dare spazio, a mettermi da parte e a disposizione del gruppo. Perché è vero che è fondamentale il regista, il suo sguardo d’assieme, l’idea forte che sta al fondo di tutto, però una caratteristica fondamentale del capocomico, forse la sua vera bravura, è riconoscere i talenti, intuire le potenzialità. E se dai fiducia a qualcuno che sta in quel momento scoprendo quanto può valere, il tuo gesto ha un effetto moltiplicatore, e quel qualcuno riuscirà a fare cose che nemmeno lui pensava alla sua portata.

La seconda cosa me l’ha insegnata in particolare Rachele. Rachele è una ragazza a cui abbiamo affidato una parte piccola ma decisiva, nella nostra Liberata, quella di Dudone, il primo guerriero a morire sulla scena. Dudone non parla mai, se non in una battuta corale, e muore quasi subito. Ma Rachele ha dato a Dudone, ai suoi gesti e alla sua presenza in scena, una forza tale che nella mia memoria è uno dei personaggi fondamentali della rappresentazione. Non è dunque questione di protagonisti e comprimari, ma di impegno e bravura.

La terza cosa che il teatro mi ha insegnato è che quando si fa sul serio sul palco non c’è niente di finto, anzi, c’è una vita più vera del vero, una vita moltiplicata per intensità e significato.

La quarta cosa il teatro l’ha insegnata al professore di lettere. Gli ha fatto capire che la strada che passa per il pensiero e le emozioni degli studenti è l’unica possibile. Dare gli strumenti, far conoscere le storie e gli autori, tutto vero e tutto necessario, va bene, ma poi i testi della letteratura vanno consegnati a loro, ai ragazzi, e loro ce li ridaranno indietro più vivi e più veri che mai. Ed è finita che io ho capito delle cose nuove sulle contraddizioni di Armida solo quando ho visto recitare Sophia, mentre le paure nascoste dietro la rabbia di Dudone le ho riconosciute grazie a Davide, e la tragica necessità del comando che ispira Goffredo era tutta negli occhi di Nicola; e l’ardore in guerra e in amore di Rinaldo me l’ha raccontato Leonardo, così come la fierezza di Clorinda e la fragilità di Tancredi sono ora a me più chiari grazie a Alice e Michele; e poi Nicol, Nicol che coi gesti, col suo sguardo, la sua tenerezza, sembrava, ad un certo punto, sostenere tutti i dolori del mondo (v.foto). E poi ancora la rabbia che Agnese ha prestato a Gernardo, le malìe di Anna Laura, e Beatrice, Rebecca, Rachele, Miriam, Silvia, Alice, Veronica… per non parlare delle due voci narranti, Agnese e Shara, che hanno sostenuto tutto il racconto con la loro grazia e la loro ironia. Io davvero credo di aver imparato da loro, sulla Gerusalemme Liberata, più di quanto loro abbiamo appreso da me.

L’ultima cosa, e più importante, ha a che fare con l’essenza stessa del teatro, col suo essere una straordinaria metafora della effimera (e in quanto tale tragica e commovente) bellezza della vita. Dopo un anno di lavoro, idee geniali e idee da buttare, errori, prove, ancora errori finché poi, finalmente, non arriva il gesto, la parola giusta; dopo che per ogni martedì alle due ci si è trovati, stanchi dopo una mattina di scuola ma comunque contenti di lavorare insieme, anche quando il lavoro era faticoso (capire, interpretare, smontare e rimontare le astruse ottave del Tasso) o noioso (gli interi pomeriggi in cui stavi solo a guardare gli  altri che provavano una scena dove tu non c’eri); dopo tutto questo, e dopo la fatica dell’ultima settimana, la tensione, la paura, le incertezze (potremo provare le luci? avremo un palco? pioverà? dove metto il sangue finto che mi serve? Michele si porterà ancora via il microfono? Rachele darà una bastonata vera in testa a Leonardo?), arriva finalmente il pubblico, lo spettacolo, la replica, gli inchini, gli applausi, gli abbracci, e nel fuoco breve di quelle due ore è tutto finito. Resta solo il ricordo dell’esperienza, restano legami e affetti che in alcuni casi si rinsalderanno, in altri si slabbreranno a poco a poco, resta la voglia e la speranza di un’altra rappresentazione (ma dove? quando? e ci saremo tutti? la vita corre in fretta a quell’età: Argante andrà a studiare fisica, Rinaldo chimica, Tancredi ingegneria, tutti in città lontane, mentre Armida forse studierà psicologia e Goffredo andrà addirittura in Inghilterra…). Resta, per certi versi, ben poco. Questo, però, non rende meno significativo, concreto e forte quel che si è fatto, anzi: rende testimonianza di quanto la vita possa essere intensa e piena in certi momenti costruiti con pazienza, passione e fatica. E di come dedicare pazienza, passione e fatica a qualcosa di bello sia, in definitiva, l’unica cosa capace di dare senso alla vita.

Qui le foto dello spettacolo del bravissimo Giovanni Di Girolamo.

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