La (mica tanto) buona scuola

In un empito di partecipazione, ho compilato il mio questionario sul sito del governo relativo alla cosiddetta “Buona scuola” (qui il piano, per chi se lo volesse leggere).

Trascrivo qui sotto le mie risposte all’ultima parte del quizzone, quella “a risposta aperta”.

Approfitto anche per segnalare un articolo sul tema, che ho trovato molto ben fatto, di Enrico Rebuffat (dal blog di Claudio Giunta).

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Non ci sono più i (***) di una volta

Tempo di scrutini: io quest’anno ne ho tre, tutti domani mattina. Le carte sono pronte, le valutazioni sono arrivate come la naturale prosecuzione di un percorso lungo un anno, e ho cercato di fare del mio meglio, come al solito, sperando che gli errori non siano troppi né troppo gravi. Le emozioni, quelle, le ho lasciate ai ragazzi, come ricordo.

Quindi non ho altro da fare, se non prepararmi ad ascoltare quel che si ascolta ad ogni consiglio di classe, e ad ogni scrutinio: la lamentatio sul fatto che non ci sono più i ragazzi di una volta, che mai come quest’anno ho fatto fatica, che, cari colleghi, io non so proprio più che fare le ho provate tutte ma questi proprio non ce la fanno saranno tutti questi smartphone questi social stanno sempre lì a spippettare ma che si diranno mai tutto il giorno. Questo, più o meno, ascolterò, e se nessuno lo dirà sarà solo perché lo si dà ormai per scontato, come la lettura del verbale della seduta precedente.

Insomma, il dato è questo: ogni anno gli studenti della mia scuola sono peggio dell’anno scorso. E questo avviene regolarmente ogni anno, da parecchio tempo. Una volta, ai vecchi tempi in cui frequentavo per mestiere biblioteche, mi sono trovato a scartabellare nei carteggi di qualche studioso o letterato di metà Ottocento, c’erano di mezzo Carducci, De Sanctis e altri pezzi da novanta del tempo: già allora era tutto un lamentarsi di quanto fossero scarse le nuove generazioni… Uno di questi giorni vado a recuperare qualche passaggio che m’ero trascritto, e magari lo metto qui, per chi fosse curioso. Insomma: è almeno da un secolo e mezzo (almeno, ma ci sono testimonianze anche dai tempi di Cicerone o forse anche di Socrate) che ogni anno i ragazzi sono tremendamente più scarsi dell’anno precedente. Mi chiedo: ma come mai ancora non siamo tornati a vivere nelle caverne? Come hanno fatto intere generazioni composte da individui progressivamente più indolenti e subdotati a tirare avanti la baracca? Mah…

Io ho sempre visto la cosa da un altro punto di vista: i ragazzi che abbiamo davanti hanno sempre la stessa età, noi invece ad ogni anno siamo di un anno più vecchi. I ragazzi sono come lo Zefiro che torna ogni primavera, e anche se noi – discretamente – cerchiamo di rubare come timidi vampiri un po’ della loro gioventù, il punto è che ogni anno siamo un po’ più distanti, un po’ più diversi dai ragazzi che abbiamo davanti. Saper gestire grazie all’esperienza (pur senza doverla o poterla annullare) quella distanza ogni anno crescente è forse uno dei compiti più importanti e stimolanti del mestiere di insegnante.

 

Però ha un difetto.

In meridione siamo piaciuti talmente, che una delle nostre ascoltatrici meridionali ha deciso di venire al nord a sentire anche questa lettura. A casa di chi ha deciso di andare, con tutti gli scrittori che c’erano? Che ce n’erano sette? A casa mia. No, ma, gentilissima. Però ha un difetto, che è un’insegnante.

Gli insegnanti hanno questa mania che parlano sempre dell’insegnamento. Ogni tre frasi dicono una parola che dev’essere una parola che gli piace molto, Pedagogico. Un’altra mania degli insegnanti è che quando ti parlano, dopo pretendono che gli rispondi. Ti dicono Eh?, alla fine delle loro frasi. Buona questa pizza, eh? Bella questa chiesa, eh? Un altro difetto degli insegnanti di sesso femminile è che gli piacerebbe fiondare con gli scrittori di sesso maschile, gli piacerebbe.

Da Bassotuba non c’è di Paolo Nori (Feltrinelli, 2009). Ecco, giusto per mettere agli atti un significato del verbo fiondare che non conoscevo.

Dove, partendo dalla cronaca, si finisce a sognare la scuola del tempo lento.

Ieri sera, da qualche sofisticato think tank vicino a Monti (sul cui percorso, per inciso, ha detto bene Renzi: “Poteva fare il Ciampi. Fa il Dini“: bum!) è uscita un’altra bella bolla d’aria sulla scuola: “scuole aperte undici mesi l’anno, le famiglie saranno contente”. La bolla è durata lì in sospeso talmente tanto poco che non s’è fatto in tempo né a capire quando come cosa e perché, né – alla fine – a spaventarsi più di tanto. Così, in questi casi, la cosa più interessante diventa la reazione a caldo sondaggi on line (Repubblica: 42% favorevoli; Huffington: 40%, Skuola.it: 19%; Twittersuca; Libero e Giornale non pervenuti, che magari si finiva per scoprire che i lettori erano d’accordo con Monti, non sia mai).

In ogni caso, oggi Monti risponde su twitter (su twitter!) così: “Ma chi ha mai parlato di taglio delle vacanze scolastiche???”. Sì, molto interrogativo: “Machihamaiparlatoditagliodellevacanzescola-stichepuntointerrogativopuntointerrogativopuntointerrogativo”. E Bersani risponde “Prima di parlare di allungare o accorciare vacanze estive, teniamo le scuole aperte tutto il giorno per attività didattiche”.

Ecco, come non ho capito cosa volesse dire (e tantomeno fare) Monti, così non capisco bene nemmeno cosa voglia dire (o fare) Bersani. Dico solo questo però: oggi, dopo le lezioni, mi sono fermato a scuola, ho mangiato una pizza al volo, ho passato la pausa pranzo a parlare di scuola e di film con una collega-amica con cui non avevo occasione di parlare da tanto tempo, poi ho fatto un paio d’ore di laboratorio teatrale con dei ragazzi molto in gamba. Sono tornato a casa un po’ stanco, però anche un po’ contento della giornata passata a scuola. Insomma, se trovano un modo intelligente di farla, a me questa cosa di tenere aperta la scuola anche il pomeriggio piace: potrebbe liberare un sacco di energia, e trasformare la scuola in un posto gradevole dove stare, godersi un tempo un più lento, riscoprire magari anche il valore dell’ozio; e forse smetterebbe di essere, la scuola, quel posto nevrotico che è, dove si impara ad essere docili ingranaggi di un meccanismo fordista, un posto da cui scappare appena finito di seguire (o di tenere) una lezione.

Una scuola del tempo lento, ecco: così la chiamerei. Così mi piacerebbe cominciarla a pensare.

Sull’argomento segnalo anche Galatea Vaglio e, da tutt’altra prospettiva, Leonardo Tondelli.

“Anche voler bene stanca”

La ripartenza del blog in questo 2013 è lenta è faticosa. Mi scuso con i passanti. Nell’attesa che qualche post degno di questo nome si coaguli, segnalo questo interessantissimo articolo dell’amica Renata (tratto dal blog collettivo La poesia e lo spirito) su un film che ho visto di recente amandolo moltissimo, e su un mestiere che ho intrapreso non troppo di recente, amandolo in egual misura (con quel che, nel bene e nel male, ne è venuto, ne viene, e ne verrà).

Mettiamo a verbale!

Ieri sera Bersani (dopo Renzi) è intervenuto a Che tempo che fa, la trasmissione che la sera prima aveva ospitato il Presidente del Consiglio Mario Monti (Bersani l’ha ricordato con una bella battuta iniziale sulle sedie e sulla spending review); dell’opinabile (diciamo opinabile) uscita di Monti sulla scuola ho già scritto. Bersani ha voluto riprendere l’argomento, con parole piuttosto chiare (mentre Renzi è rimasto sul vago: “investire di più, la sinistra ha fatto errori madornali…”…). E, siccome credo che Bersani sarà il prossimo prossimo Presidente del Consiglio di “‘sto paese qua” (e io nel mio piccolo cercherò di contribuire perché questo accada), mi pare il caso di trascrivere fedelmente le parole che ha detto, così da potergliele ricordare quando sarà il momento. Ecco la trascrizione stenografica:

“Io penso questo, adesso: sulla scuola di errori ne han fatti tutti, anche noi ne abbiam fatto qualcuno. Però, insomma, adesso, a questo punto, io l’ho detto anche in parlamento e ho agito anche di conseguenza, noi non possiamo accettare che ogni sei mesi arrivi uno schiaffo alla scuola, nei termini materiali, e neanche in termini immateriali, come queste (anche, insomma) affermazioni un po’ sbrigative. E noi avremo più bisogno nel futuro della scuola rispetto ad oggi, e non solo perché ci vuole conoscenza sennò non c’è competitività, tutte queste cose che ci diciamo sul piano economico eccetera, ma anche per un motivo più di fondo: oggi la nuova generazione, i ragazzi le ragazze, i giovani, i bambini sono sommersi dall’informazione, ma l’informazione non è conoscenza, ha bisogno… la conoscenza sono degli scaffali dove mettere le informazioni, e l’unico falegname per far quello scaffale è l’insegnante. Quindi, se non hai ancora i soldi da dargli, come gliene andrebbero dati rispetto al resto d’Europa, però almeno considerane il ruolo e la dignità e l’importanza e il rilievo. Io credo che sulla scuola nella prossima legislatura si debba fare una operazione quasi costituente: fermiamoci un attimo, ragioniamo assieme, e vediamo come può esser messo in stabilità un sistema che è… in questo momento è troppo, è anche barcollante, qualche volta, mentre sta aumentando l’abbandono scolastico… mentre noi abbiamo dieci o dodici, quindici mila iscritti in meno all’università l’anno scorso, eh! Non perché non vogliono andarci, perché non hanno i soldi per andarci, loro e le loro famiglie, insomma.”

Abbiamo messo a verbale, dunque; ora vale la pena di darsi da fare perché questa fase costituente inizi subito, già dentro le scuole, e nel confronto fra scuole e paese. Fra insegnanti, alunni e famiglie.

Addenda. 1) Qualcuno mi suggerisce di aggiungere anche le parole di Gramellini, che poi lo candidiamo al Ministero dell’Istruzione (anche se, uh, temo un po’ la sua retorica). 2) Qualcun altro mi fa notare che questo post potrebbe essere anche uno strumento utile per avviare lo studio della sintassi bersaniana. Anche se l’aspetto più interessante del suo stile è la retorica e la stilistica…

Parole gravi e avventate

Non riesco a trovare nemmeno un briciolo di ironia e di distacco, nel segnalare quel che il Presidente del Consiglio Mario Monti ha dichiarato poco fa in una nota trasmissione televisiva.

Monti dice due cose semplici e gravissime: una, che gli insegnanti, non accettando l’aumento (che è un sopruso) di sei ore di lezione settimanali a parità di stipendio e senza nessuna contrattazione, si sono dimostrati “non generosi”. Due, che per difendere i loro privilegi hanno strumentalizzato la rabbia degli studenti. La prima accusa è maldestra e pelosa, la seconda infamante e semplicemente stronza.

I giovani sono arrabbiati perché la politica e l’economia dissennata degli ultimi decenni hanno scaricato sul loro futuro il peso dei loro sprechi, delle loro inettitudini. La scuola è l’unica istituzione che con generosità ha continuato a dare loro qualcosa, anche quando è stato difficilissimo farlo. Non so davvero quale sia il piano perseguito (temo non ce ne sia nessuno) ma in ogni caso provare a mettere zizzania fra gli insegnanti e i loro alunni non può portare davvero niente di buono. Il bello è soltanto che non succederà, perché per fortuna i ragazzi sono intelligenti e critici, e sanno distinguere la dedizione di un insegnante dalla parole vuote di un tecnocrate.

Ma Monti non parlava agli studenti, stasera, parlava all’opinione pubblica, per convincerla ancora di più che gli insegnanti della scuola pubblica sono uno spreco di risorse, dei fannulloni. Magari da questo spera di ricavare l’avallo ad altri tagli ad un sistema già al collasso.

Io penso che Monti non sappia nemmeno di cosa sta parlando: non sa che dopo la riforma Gelmini le cattedre sono già frammentate e le classi numerosissime, che noi prof lavoriamo tantissimo a casa per dare un’offerta di qualità accettabile in un contesto difficilissimo, e che aumentare di 6 ore (lui maldestramente e ipocritamente parla di 2, ma ne erano previste 6) la nostra cattedra significherebbe aumentare di almeno 12 ore il nostro orario di lavoro settimanale, rendendo la nostra vita un caos in cui sarebbe impossibile studiare, lavorare per la qualità e la didattica che lui auspica. Ha ragione, Monti, quando dice che bisogna rinnovare la scuola e la professione insegnante, ma per farlo bisogna partire da una discussione comune, da un contratto, da una riforma vera della scuola, fatta per seguire un’idea moderna, non (come è stato fatto da Gelmini-Tremonti) per trovare il modo di tagliare 8 miliardi dal bilancio del ministero.

Questo è quello che riesco a dire ora, a caldo, quando le parole fanno anche fatica ad uscire per la rabbia e l’indignazione. Di certo è ormai ineludibile che si faccia qualcosa per comunicare davvero all’opinione pubblica quel che è davvero il nostro lavoro, la sua importanza, la sua necessità.


La foto l’ho scattata ieri, alla manifestazione Cgil di Roma. Sono orgoglioso di esserci stato, stasera ancora di più.

La giornata di uno scioperante

Ciao a tutti, mi chiamo Gab e faccio l’insegnante. Di lettere. In un liceo. Vivo con una persona che fa il mio stesso lavoro. Oggi io e l’altra persona abbiamo scioperato, e questo inciderà sul nostro bilancio mensile per (credo) circa 150 euro. Volevo raccontarvi la nostra giornata.

Il pomeriggio l’abbiamo impegnato andando ad una manifestazione sindacale: era, a dire il vero, in un luogo un po’ tristanzuolo, una piazzetta presso un incrocio in una zona industriale; e noi siamo anche arrivati tardi perché avevo letto male la mail e pensavo che il presidio cominciasse un’ora dopo. Ma è stato comunque bello sentire le voci delle altre categorie di lavoratori (era uno sciopero generale, non solo e non principalmente degli insegnanti, e anzi si trattava di uno sciopero europeo, una novità che qualcuno ha salutato con molto favore): ti rendi conto, ascoltando operai e precari, pensionati e studenti, che i problemi sono tanti, cominci a relativizzare i tuoi e soprattutto capisci che nessuno si salva da solo. Il resto del pomeriggio l’abbiamo passato discutendo con altri due colleghi di scuola, del nostro lavoro, di sindacati e di politica.

Ma quel che mi premeva di più, anche se l’ho lasciato alla fine, era raccontarvi come ho passato la mattinata: io e la persona con cui vivo abbiamo passato la mattinata a correggere dei compiti in classe, perché non capita spesso di avere mezza giornata libera per farlo e magari correggerli oggi ci permetterà di avere un po’ più tempo libero nel week-end. Io, che ne avevo solo una decina, ho anche finito presto e mi sono rimesso a leggere un libro che potrebbe servirmi per un certo percorso che ho in mente di fare in quinta… Così è arrivata l’ora di pranzo.

Tutto questo nel giorno in cui abbiamo scioperato, perdendo il nostro stipendio giornaliero. Perché scioperare per noi significa non andare un giorno a scuola a fare lezione; resta però tutto il resto, che dobbiamo fare comunque, ma, non essendo riconosciuto come lavoro, non essendo in nessun modo quantificato e pagato, è anche escluso da ogni forma di sciopero.

Strano mestiere, quello dell’insegnante. E strano sciopero.

Per vedere di nascosto l’effetto che fa

– Guarda, potremmo proporre una legge sulla reintroduzione della schiavitù nei latifondi del Meridione. Dopo un mesetto di propaganda leghista e qualche notiziola di cronaca fatta trapelare ad arte, avremmo dalla nostra un bel pezzo di opinione pubblica e…

– Maddài, ti pare? Siamo nell’Italia del 2021, mica nel Congo Belga. In Europa ti ridono dietro. Ti ricordi cosa è successo quella volta con… com’è che si chiamava, quel tizio che andava sempre in giro col girocollo blu? Ecco, Marchionne, sì, giusto.  Ecco: solo perché voleva introdurre regole di lavoro un po’ meno arcaiche nelle sue fabbriche ci ha messo anni a far passare la sua linea… Ora la schiavitù mi pare francamente un’idea troppo, come dire, moderna. Se non altro in anticipo sui tempi. Non trovi?

– Be’, ma che hai capito: mica dico di introdurla ora, detto-fatto! Noi intanto la buttiamo lì, facciamo una proposta di legge, diciamo che la congiuntura è quella che è, la concorrenza dei narcos messicani e delle mafie thailandesi è sempre più agguerrita, ce lo chiede l’Europa… Cose così, insomma, basta parlare con un po’ di stampa amica e tempo due mesi vedrai che la schiavitù diventerà oggetto di dibattito, se ne parlerà come di una dello opzioni sul tappeto. Qualche comico ci farà le battute, i talk show organizzeranno speciali. Se ne parlerà, se ne valuteranno i pro e i contro, non sarà più un tabù insomma. Ti ricordi il “Protocollo 24ore”?

– Ventiquattrore? No. C’entra il nostro giornale, forse?

– No, che c’entra il Sole? Il piano che abbiamo usato nel ’12 per risolvere il problema della scuola pubblica.

– Ah già! Quando abbiamo buttato lì l’idea di aumentare di un terzo a parità di stipendio l’orario di lezione degli insegnanti della scuola pubblica: un bell’azzardo, quella volta.

– Però, devi convenire, ha funzionato. Nel giro di un paio d’anni abbiamo risolto tutto, e ora abbiamo un sacco di personale libero per i lavori socialmente utili… Il colpo di genio è stato buttar lì l’idea come fosse la cosa più normale del mondo e, quando ormai se ne parlava come di una cosa quasi fatta, toglierla dal piatto (lì il segreto), dire che non è il caso, che s’è scherzato: se l’avessimo fatta subito ‘sti professori avrebbero fatto le vittime, gli scioperi, il piagnisteo, le catene… sai che palle! Invece così, quando abbiamo ritirato (per qualche mese) la legge, son passati loro per privilegiati e tutti a dargli contro: ti ricordi? “quaranta ore come gli operai, dovete lavorare!”, diceva la gente. E lasciare tutto com’è è sembrato ai più quasi come se gli avessimo fatto lo sconto. Roba da pazzi, bellissimo!

– E sì, è stata proprio una bella operazione. Ci hanno anche scritto dei saggi. Poi la tua idea di dire, lo stesso giorno, che non c’era una lira per pagare gli esodati (quelli sì, poveretti, eran messi male!) è stata la ciliegina sulla torta. Mi ricordo ancora i titoli dei giornali del giorno dopo: “Salvo l’orario dei prof. Mancano i fondi per gli esodati”. Non c’è che dire, proprio un bel protocollo. Quindi dicevi…

– Dicevo di mettere (così, provvisoriamente…) nella Legge di Stabilità un articolo che reintroduce la schiavitù nelle regioni del Sud…