Ieri sera, tornando dal cinema, abbiamo imboccato una strada sbagliata e ci siamo ritrovati a fare inversione davanti a questa insegna, così abbiamo scoperto cosa è diventato oggi il primo articolo della Costituzione Italiana:
E buon Primo Maggio.
Ieri sera, tornando dal cinema, abbiamo imboccato una strada sbagliata e ci siamo ritrovati a fare inversione davanti a questa insegna, così abbiamo scoperto cosa è diventato oggi il primo articolo della Costituzione Italiana:
E buon Primo Maggio.
Mentre stiamo a discutere di se/come riformare la prova di greco e latino al classico, di possibili ritorni ad una scuola media-ginnasio, col latino e tutto e il resto, di come tutto era più bello quando la scuola era saldamente gentiliana e classista, tutti discorsi interessanti certo ma rivolti decisamente al passato, qui succedono un po’ di cose, ne segnalo qualcuna, quasi random. Continua a leggere
Cosa mi piace del cinema di Virzì? Prima di tutto i personaggi, sempre piuttosto complessi e molto credibili rispetto agli standard della commedia italiana di oggi; e, in stretta relazione a questo, il lavoro sugli attori (è tanto bravo è spremere da loro il massimo che certe volte stenti a riconoscerli; vabbè, il caso Ferilli è esemplare). Poi la sua capacità di raccontare l’Italia. E la scelta consapevole e coerente di mettersi – unico capace di farlo bene – nel solco della grande commedia all’italiana di Scola e Monicelli. E poi mi piace anche il coraggio di fare sempre film politici senza esagerare con la retorica, ma anche senza tentennamenti e senza concessioni allo spirito dei tempi. Continua a leggere
Volevo parlarvi un attimo di Antonio e Anahì, che oggi sono andato a salutare prima che partissero per Milano.
Antonio è un regista teatrale, con cui lavoro da anni nelle scuole (e adesso un po’ anche fuori dalle scuole), giovane, geniale, incasinato quanto basta come deve essere un artista. E’ uno che prende ragazzi che non hanno mai fatto teatro e alla fine dell’anno gli fa fare delle cose straordinarie. Vede in una ragazza un mago, e lei diventa un mago; vede gli occhi di un adolescente e capisce a dicembre che dietro quegli occhi c’è l’attore che, a maggio, terrà in piedi tutto lo spettacolo. Antonio non lavora solo coi ragazzi, ma anche con i professionisti, e allora ogni suo lavoro diventa uno sguardo nuovo su un’opera.
Come tutti gli artisti, Antonio vede le cose prima che esistano.
Anahì l’ho conosciuta invece solo qualche giorno fa: è un’attrice, bellissima e bravissima. La sera del 25 aprile, con pochissimo tempo per provare, si è caricata sulle spalle le storie di decine di internate nei campi fascisti e le ha fatte magicamente rivivere. Tre giorni dopo, nelle case di terra di Ficana, è diventata per una sera una allucinata e tenerissima Antigone, ma è stata contemporaneamente anche Creonte, e anche Sofocle, e anche Anouilh, insieme a tutti i personaggi della storia. Anche lì senza niente o quasi che la aiutasse: il suo corpo, la sua voce, la sua fragile forza.
Come tutti gli artisti, Anahì fa esistere cose che prima non esistevano.
Sia Antonio che Anahì vengono da una delle più prestigiose scuole di teatro italiane; sia Antonio che Anahì hanno poco più di trent’anni e un grande talento; sia Antonio che Anahì, per quanto ne so, vivono una condizione lavorativa assolutamente precaria, come tantissimi giovani artisti di questo paese. Un paese dove le istituzioni si aspettano spesso che gli artisti lavorino gratis, e dove il pubblico spesso si aspetta che gli spettacoli non costino nulla. Come se chi fa, ad esempio, teatro, non abbia un affitto o un mutuo da pagare.
Oggi con Antonio e Anahì ci siamo presi un caffé insieme, abbiamo parlato di progetti futuri e delle difficoltà del loro lavoro; poi ci siamo salutati e loro hanno preso il treno per Milano. Ormai, dovrebbero essere arrivati.
Io sono rimasto qui, grato per la bellezza che le donne e gli uomini di teatro ci donano, amareggiato al pensiero di quanto un lavoro così prezioso sia spesso misconosciuto.
Dovevamo andare a vedere Jeeg Robot con gli amici, ma poi un piccoletto si è ammalato e tutta la faccenda è saltata. Quindi si è pensato a Room ma poi magari ci incupiva tutto il weekend e non ce la siamo sentita. Allora andiamo a vedere Spotlight (scusate se non lo cito con il titolo italiano, ma a me pare sbagliato, e comunque brutto): non proprio una prima scelta insomma.
Il film però è bello, bello, bello. Per un sacco di motivi e ne dirò soltanto alcuni in ordine sparso. E’ bello perché racconta una storia di soprusi terribili (narra, si sa, di preti pedofili – tanti preti pedofili – nella Boston fra fine XX e inizio XXI secolo), ma senza mai una scena ad effetto, con scelte controllatissime di regia: l’orrore solo raccontato, con poche lacrime, da personaggi non necessariamente simpatici.
Il fatto però è che, in realtà, non è un film sui preti pedofili, questo, ma soprattutto un film sul lavoro: la storia di un gruppo di quattro giornalisti che fa bene il suo mestiere, ci crede, si prende il tempo che serve, lavora veramente di squadra (col capo che fa il capo ma quando serve si spulcia come tutti gli annuari della diocesi, il lavoro più umile e palloso), non scende a nessun compromesso, e ti fa davvero sentire quanto può essere sensato e gratificante lavorare ad una cosa importante, con persone di cui ti puoi fidare ciecamente, in un ambiente che ti sostiene e crede in te anche quando fai le scelte più difficili (E dici: “Wow”. Sì: “Wow, l’avessi visto a vent’anni questo film mi avrebbe cambiato la vita. Mi avrebbe convinto a fare il giornalista d’inchiesta.” Poi però ti fermi un attimo e pensi che forse, in Italia, te l’avrebbe rovinata, la vita, questo film, ecco).
E poi è bello anche per un altro motivo: descrive benissimo i meccanismi (sociali, psicologici, giuridici) senza essere troppo didascalico. Un esempio: come fa emergere la responsabilità collettiva di tutta la perbenista Boston per quello che è successo: l’omertà, le pressioni, le connivenze, i profitti…
E poi va detto, per finire, che è recitato benissimo, soprattutto da quattro attori: Michael Keaton, Mark Ruffalo, Rachel McAdams, Liev Schreiber. A me ha colpito soprattutto quest’ultimo, che ha una parte apparentemente minore ma decisiva, recitata sottotono e intensissima, quella del nuovo direttore del Globe, che viene da fuori, è ebreo, non ha famiglia, parla pochissimo, sta al lavoro fino a tardi, anche la domenica, e quando è in procinto di pubblicare un’inchiesta di portata storica, su cui il suo staff lavorava da anni, lui sta lì a spulciare quali aggettivi inutili si possono togliere. Il vero motore di tutto il film, questo direttore, l’outsider necessario perché – in un contesto socialmente e culturalmente chiuso – possa avvenire una rivoluzione.
E se questa non vi basta, e avete molto altro tempo da passare a leggere impressioni su questo film, c’è anche Leonardo (che da 15 anni scrive, scrive tanto, scrive sempre di più, ma questo è un altro discorso…).
Update 9/3/2016 – Segnalo una recensione di segno opposto alla mia, che giudica negativamente il film proprio perché parte dall’idea che sia solo e soltanto un film sui preti pedofi
Tempo di scrutini: io quest’anno ne ho tre, tutti domani mattina. Le carte sono pronte, le valutazioni sono arrivate come la naturale prosecuzione di un percorso lungo un anno, e ho cercato di fare del mio meglio, come al solito, sperando che gli errori non siano troppi né troppo gravi. Le emozioni, quelle, le ho lasciate ai ragazzi, come ricordo.
Quindi non ho altro da fare, se non prepararmi ad ascoltare quel che si ascolta ad ogni consiglio di classe, e ad ogni scrutinio: la lamentatio sul fatto che non ci sono più i ragazzi di una volta, che mai come quest’anno ho fatto fatica, che, cari colleghi, io non so proprio più che fare le ho provate tutte ma questi proprio non ce la fanno saranno tutti questi smartphone questi social stanno sempre lì a spippettare ma che si diranno mai tutto il giorno. Questo, più o meno, ascolterò, e se nessuno lo dirà sarà solo perché lo si dà ormai per scontato, come la lettura del verbale della seduta precedente.
Insomma, il dato è questo: ogni anno gli studenti della mia scuola sono peggio dell’anno scorso. E questo avviene regolarmente ogni anno, da parecchio tempo. Una volta, ai vecchi tempi in cui frequentavo per mestiere biblioteche, mi sono trovato a scartabellare nei carteggi di qualche studioso o letterato di metà Ottocento, c’erano di mezzo Carducci, De Sanctis e altri pezzi da novanta del tempo: già allora era tutto un lamentarsi di quanto fossero scarse le nuove generazioni… Uno di questi giorni vado a recuperare qualche passaggio che m’ero trascritto, e magari lo metto qui, per chi fosse curioso. Insomma: è almeno da un secolo e mezzo (almeno, ma ci sono testimonianze anche dai tempi di Cicerone o forse anche di Socrate) che ogni anno i ragazzi sono tremendamente più scarsi dell’anno precedente. Mi chiedo: ma come mai ancora non siamo tornati a vivere nelle caverne? Come hanno fatto intere generazioni composte da individui progressivamente più indolenti e subdotati a tirare avanti la baracca? Mah…
Io ho sempre visto la cosa da un altro punto di vista: i ragazzi che abbiamo davanti hanno sempre la stessa età, noi invece ad ogni anno siamo di un anno più vecchi. I ragazzi sono come lo Zefiro che torna ogni primavera, e anche se noi – discretamente – cerchiamo di rubare come timidi vampiri un po’ della loro gioventù, il punto è che ogni anno siamo un po’ più distanti, un po’ più diversi dai ragazzi che abbiamo davanti. Saper gestire grazie all’esperienza (pur senza doverla o poterla annullare) quella distanza ogni anno crescente è forse uno dei compiti più importanti e stimolanti del mestiere di insegnante.
Sto leggendo questo libro, che racconta in 500 pagine tre giorni della vita di un agente immobiliare di cinquantacinque anni del New Jersey, malato di cancro e recentemente abbandonato dalla seconda moglie: non sembrerebbero le premesse per un libro esaltante, eppure mi sta piacendo un sacco. E mi capita anche spesso di ritrovarmi alla lettera o quasi in certe riflessioni del protagonista. Per esempio:
Mi sorprende che [Ann] possa reggere qui dentro, che [la ragazza del Michigan pragmatica e antigregaria che è in lei] possa mandar giù l’atmosfera iper-controllata, pseudo-comunitaria, finto-umanistica, che appesta il corpo docente di queste scuole [private] come un gas tossico: ognuno che lima le proprie eccentricità in modo da non offendere nessuno, rimanendo però attorcigliato come un serpente a sonagli, pronto a “diventare difficile” e a “creare problemi” nei confronti di quei colleghi le cui eccentricità non siano state limate allo stesso modo. Ci si aspetterebbe che fossero i genitori psicotici e i ragazzi ostili, non sufficientemente sedati, a portarti alla follia. E invece no. Sono sempre i colleghi, lo so perché per un anno, secoli fa, ho insegnato in una piccola università del [New Englad]. Sono le [Marci] e i [Jason], gli esotici [Berdanrd] e le muscolose [Ludmille], venute epr un anno di [Fulbright] dalla [Lettonia], che ti fanno venire voglia di scappare ululando fra gli alberi e unirti alle specie in via di estinzione che vi si nascondono. Sono i rapporti approfonditi con gruppi sempre più ristretti di persone che la pensano tutte allo stesso modo a costituire la malattia della provincia [americana].
Ho dovuto mettere fra parentesi pochissimo, quasi soltanto i nomi propri e le indicazioni geografiche. Potrebbe essere un apologo sul valore universale della letteratura, o sull’universale desolazione delle scuole di provincia, di ogni provincia.
In meridione siamo piaciuti talmente, che una delle nostre ascoltatrici meridionali ha deciso di venire al nord a sentire anche questa lettura. A casa di chi ha deciso di andare, con tutti gli scrittori che c’erano? Che ce n’erano sette? A casa mia. No, ma, gentilissima. Però ha un difetto, che è un’insegnante.
Gli insegnanti hanno questa mania che parlano sempre dell’insegnamento. Ogni tre frasi dicono una parola che dev’essere una parola che gli piace molto, Pedagogico. Un’altra mania degli insegnanti è che quando ti parlano, dopo pretendono che gli rispondi. Ti dicono Eh?, alla fine delle loro frasi. Buona questa pizza, eh? Bella questa chiesa, eh? Un altro difetto degli insegnanti di sesso femminile è che gli piacerebbe fiondare con gli scrittori di sesso maschile, gli piacerebbe.
Da Bassotuba non c’è di Paolo Nori (Feltrinelli, 2009). Ecco, giusto per mettere agli atti un significato del verbo fiondare che non conoscevo.
La notizia è nota: ad una iniziativa pubblica del Partito Democratico una giovane (ma non giovanissima: 37 anni) donna, laureata in lettere, lavoratrice precaria in una casa editrice, parla (qui il video) di un’altra donna, anch’essa impiegata in un casa editrice, e dice, premettendo che la verità è sempre scandalosa e che probabilmente per quello che sta per dire “non mi vedrete più, se non su facebook”, che è stufa di vedere mogli di, figli di, fratelli di nei posti migliori. E dice che Giulia Ichino, figlia di Pietro Ichino, ha un buon lavoro, fisso, nella casa editrice Mondadori da quando aveva 23 anni. Forse commette anche un piccolo errore: a sentire la diretta interessata pare che lei abbia un posto fisso in Mondadori da quando di anni ne aveva 22, ma come impiegata; il buon lavoro, quello di “editor”, sarebbe arrivato dopo alcuni anni. Vabbe’, è un dettaglio.
La sostanza è che queste parole hanno scatenato un putiferio: contro questa donna, che si chiama Chiara Di Domenico, hanno lanciato strali, oltre allo stesso Ichino, Luca Sofri, Gianni Riotta, Pietro Citati, Fabrizio Rondolino e molti altri (se vi interessano le loro argomentazioni, andatevele a cercare). Tutti a dire, in sostanza: Giulia è una davvero brava, non è vero che è stata raccomandata. Cattiva cattiva Chiara Di Domenico per aver detto queste cose.
Ecco, il punto è questo: nessuno ha capito di cosa stava parlando Chiara Di Domenico. Non stava dicendo che Giulia Ichino era stata raccomandata dal padre per avere un posto a Mondadori. A parte che non poteva averne le prove, e poi francamente Pietro Ichino non sembra proprio il tipo… Così precisino, lui… Un po’ come per la storia della figlia di Elsa Fornero, qualche tempo fa: qualcuno pensa che la madre, o il padre, si sia dovuto abbassare a fare una telefonata a qualche collega, per agevolare la brillante carriera universitaria della figlia? Io credo sinceramente di no. Io credo che a certi livelli semplicemente non serva, non funzioni così.
Quindi ecco, quando Pietro Ichino, colmo d’indignazione, sottolinea che lui non ha “mai [in indignatissimo grassetto, nell’originale] speso una sola parola per favorire in alcun modo l’assunzione di una persona da parte di un’impresa o di un ente pubblico; men che meno lo avre[bbe] fatto per [sua] figlia o per qualsiasi altro [suo] parente” be’, non ho motivo per non credergli. Però non posso non sottolineare che lui (e con lui tutti gli altri indignati – spesso anche loro con cognome illustre, o con figli dal cognome illustre) travisa (credo scientemente) il senso delle parole di Chiara, che non ha detto che lui ha raccomandato la figlia. Ha semplicemente detto che sua figlia lavora alla Mondadori. Con un posto fisso. Da quando aveva 23 anni. E che è sua figlia. Una serie di dati di fatto. Che non sono né eccezionali né, per la situazione italiana, casuali.
Chiara, insomma, voleva ricordarci semplicemente una cosa: in Italia non c’è ascensore sociale. Chi fa parte di certi ambienti, chi viene da certe situazioni familiari, chi si è potuto fare una certa formazione e godere di una serie di contatti in Italia ha la ragionevole garanzia di farcela. Soprattutto se è anche bravo, come certamente Giulia Ichino è. Poi ci sono anche quelli che ce la fanno anche se non valgono nulla, ma di quelli non voglio nemmeno parlare, non è questo il punto.
Il punto è che fra due bravi è molto più facile che ce la faccia quello che viene da una famiglia “inserita” nel sistema di potere. Per non parlare del fatto che chi viene da quel tipo di famiglia lì ha la possibilità di farsi una formazione (ovvero di coltivare la sua bravura) che chi viene da una famiglia povera non si sogna nemmeno (qui dovrebbe intervenire, Costituzione alla mano, qualche indignato costituzionalista, che dovrebbe far notare come la scuola e i servizi pubblici dovrebbero garantire pari opportunità sia al bravo inserito, sia a quello figlio di nessuno – ma di solito i Costituzionalisti sono a loro volta inseriti, e magari stasera vanno a cena dall’amico giuslavorista, che ha invitato anche il commendatore – ah, a proposito, cara, portiamo anche Gianfilippo, che dici, è ora che si faccia vedere un po’ in giro, ormai è grande, non si sa mai…).
Quindi vediamo di toglierci dagli occhi le fette di salame, cari Sofri e Ichino e compagnia bella. Qui nessuno vuole mettere in discussione che voi siate bravi, che i vostri figli siano bravi. Però il successo vostro e loro dipende in minima parte dalla vostra bravura, e molto dalle circostanze in cui siete nati e cresciuti, in cui vi siete formati e avete trovato lavoro. Suona un po’ demodè dirlo, lo capisco, ma il fatto è che voi fate parte di una classe sociale diversa da quella di Chiara Di Domenico. E dalla mia, che come Chiara vengo da una casa dove prima di me nessuno s’era laureato. E l’ascensore era rotto.
(qui un articolo in cui Chiara risponde alle critiche, qui un articolo di Gennaro Carotenuto, che al solito non usa mezzi termini).
PS: naturalmente mi rendo conto che può sembrare antipatico che sia stato scelto proprio Pietro Ichino come esempio, che questa può sembrare una vendetta per il suo “tradimento” del Partito Democratico. Però però, uno quando porta avanti certe politiche sul lavoro e poi si ritrova a vivere direttamente situazioni privilegiate, be’, deve mettere in conto che qualcuno lo possa costringere a confrontarsi con le sue contraddizioni. O no?
Ieri sera, da qualche sofisticato think tank vicino a Monti (sul cui percorso, per inciso, ha detto bene Renzi: “Poteva fare il Ciampi. Fa il Dini“: bum!) è uscita un’altra bella bolla d’aria sulla scuola: “scuole aperte undici mesi l’anno, le famiglie saranno contente”. La bolla è durata lì in sospeso talmente tanto poco che non s’è fatto in tempo né a capire quando come cosa e perché, né – alla fine – a spaventarsi più di tanto. Così, in questi casi, la cosa più interessante diventa la reazione a caldo sondaggi on line (Repubblica: 42% favorevoli; Huffington: 40%, Skuola.it: 19%; Twitter: suca; Libero e Giornale non pervenuti, che magari si finiva per scoprire che i lettori erano d’accordo con Monti, non sia mai).
In ogni caso, oggi Monti risponde su twitter (su twitter!) così: “Ma chi ha mai parlato di taglio delle vacanze scolastiche???”. Sì, molto interrogativo: “Machihamaiparlatoditagliodellevacanzescola-stichepuntointerrogativopuntointerrogativopuntointerrogativo”. E Bersani risponde “Prima di parlare di allungare o accorciare vacanze estive, teniamo le scuole aperte tutto il giorno per attività didattiche”.
Ecco, come non ho capito cosa volesse dire (e tantomeno fare) Monti, così non capisco bene nemmeno cosa voglia dire (o fare) Bersani. Dico solo questo però: oggi, dopo le lezioni, mi sono fermato a scuola, ho mangiato una pizza al volo, ho passato la pausa pranzo a parlare di scuola e di film con una collega-amica con cui non avevo occasione di parlare da tanto tempo, poi ho fatto un paio d’ore di laboratorio teatrale con dei ragazzi molto in gamba. Sono tornato a casa un po’ stanco, però anche un po’ contento della giornata passata a scuola. Insomma, se trovano un modo intelligente di farla, a me questa cosa di tenere aperta la scuola anche il pomeriggio piace: potrebbe liberare un sacco di energia, e trasformare la scuola in un posto gradevole dove stare, godersi un tempo un più lento, riscoprire magari anche il valore dell’ozio; e forse smetterebbe di essere, la scuola, quel posto nevrotico che è, dove si impara ad essere docili ingranaggi di un meccanismo fordista, un posto da cui scappare appena finito di seguire (o di tenere) una lezione.
Una scuola del tempo lento, ecco: così la chiamerei. Così mi piacerebbe cominciarla a pensare.
Sull’argomento segnalo anche Galatea Vaglio e, da tutt’altra prospettiva, Leonardo Tondelli.