Con gli altri autori di Una storia chiamata letteratura abbiamo provato a buttar giù in poche pagine alcuni pensieri, per spiegare quali idee portanti e quali visioni culturali ci hanno spinto a provare a costruire un nuovo manuale di letteratura italiana. Qui di seguito il mio saggio, nel quale provo a ragionare sul senso di insistere su una disciplina apparentemente così fuori sincrono rispetto ai nostri tempi come la letteratura italiana; e a chiedermi a quali condizioni ha senso farlo. Gli altri contributi, incentrati sui temi della centralità del testo (Massimiliano Tortora), della letteratura come “laboratorio morale” (Claudia Carmina) e sul ruolo del manuale di letteratura nella vita di una classe (Roberto Contu) sono disponibili qui.
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Omaggio a Charlotte

laletteraturaenoi.it oggi ospita una mia nota su Charlotte
Delbo, con due poesie di questa straordinaria scrittrice e intellettuale francese sopravvissuta a Auschwitz.
Io vi supplico
fate qualcosa
imparate un passo
una danza
qualcosa che vi giustifichi
che vi dia il diritto
di essere vestiti della vostra pelle dei vostri capelli
imparate a camminare e a ridere
perché sarebbe troppo assurdo
alla fine
che tanti siano morti
e che voi viviate senza far niente della vostra vita.
Poesie per la quarantena / 17
“Dottoressa chiamata aprile”: è un verso di una ‘poesia per musica’ (genere letterario oggi dai più chiamato ‘canzone’) di Francesco De Gregori. Me l’ha fatto ricordare poco fa un amico, Marco Sonaglia, che ogni sera su Facebook carica un video in cui interpreta una canzone, e così ci fa compagnia. Il protagonista della canzone, intitolata Gambadilegno a Parigi, è un vecchio che vive ai margini, solo, senza una gamba, e che ricorda la Atene della sua giovinezza, quando era bello sorprendesi per una nevicata imprevista. Oggi invece, nell’umida Parigi, l’inverno è un nemico, e Gambadilegno aspetta la primavera come si aspetta una dottoressa che curi tutti i tuoi acciacchi. E’ dura, per il vecchio Gambadilegno, ma lui va avanti, con il suo passo sghembo, contro le avversità: “Gambadilegno avanti, avanti, avanti marsh…”, è il verso con cui si conclude la canzone. Gambadilegno è ciascuno di noi, che consapevole della sua più o meno grande fragilità, aspetta con speranza la primavera, la medicina della dottoressa aprile. E nell’attesa che la medicina funzioni, anche noi comunque andiamo avanti. Avanti marsh.
Gambadilegno a Parigi
E la sua bocca spalancata
E la sua mano da riscaldare
E la sua vita stonata
E quel suo mare senza onde
E la sua vita gelata
Sotto una nevicata
Ballerino di samba
E come inciampa in ogni spigolo
Innamorato e ridicolo
Come guida la banda
Come attraversa la strada
Senza una gamba
Da questa pubblica città
Da questo albergo tutto fatto a scale
Da questa umidità
Dottoressa chiamata Aprile
Che conosci l’inferno
Portami via da questo inverno
Portami via da qua
E l’ospedale militare
Ed i soldati carichi di pioggia
E un compleanno da ricordare
Ed un ombrello sulla spiaggia
E un dopoguerra sul lungomare
E allora sognò il tempo
Che lo voleva fermare
Lazzaro di Notre Dame
Come sta dritto nella tempesta
Alla fermata del tram
Chiama un tassì si mette avanti
Dai Campi Elisi alla Grande Arche
Gambadilegno avanti avanti
Avanti marsch
Qui una versione live di De Gregori; la versione di Marco Sonaglia si può vedere sul suo profilo Facebook.
Poesie per la quarantena / 13
In questi giorni, in cui se guardi i TG, o leggi i numeri del contagio, sembra tutto nero, succedono, come sempre nel mondo, anche cose bellissime. Nel cerchio dei miei amici vecchi e nuovi sono ad esempio nati un bimbo e una bimba, che sfidando la superstizione (ma che ne sanno loro di superstizione?) sono venuti al mondo rispettivamente venerdì 13 e martedì 17 marzo. Il babbo di lei, per regalo, le ha scritto questa poesia, e mi ha dato l’autorizzazione a condividerla con chi legge questa rubrichetta.
Eccoti al mondo
– ti parrà un po’ impaurito –
è un posto bello, il più bello
di tutti.
Che Dio ti benedica,
Margherita.
Sei la tigna, la vita.
Poesia di Roberto Contu (chi vuole un po’ conoscerlo può ascoltare questo, dal minuto 40 circa), inedita.
Foto di mio padre.
Poesie per la quarantena / 11
“Qui mira e qui ti specchia / secol superbo e sciocco”: Leopardi, in questi versi della Ginestra, invita l’Ottocento a osservare le pendici del Vesuvio devastate dalla lava, e a rispecchiare in quella devastazione la sua stupida superbia. Perché, di fronte alla forza della natura, ogni superbia umana non può che dimostrarsi stupida. Il coronavirus è solo una manifestazione, particolarmente subdola perché invisibile e incontrollabile, della superiore potenza della natura. Di fronte a questa potenza, i singoli e gli Stati che dicono “andrà tutto bene”, “qui non succederà niente”, “andiamo avanti come prima”, mostrano i limiti di una cultura incapace di fermarsi, di fare con umiltà i conti con la propria relativa impotenza. Abbiamo continuato, finché è stato possibile, a far girare il meccanismo impazzito delle “magnifiche sorti e progressive”, ma alla fine abbiamo dovuto prendere atto (troppo tardi) di quel che stava succedendo. In questo senso le civiltà orientali (Giappone, Corea del Sud) hanno mostrato una consapevolezza culturale, una dimensione civile molto più forte di quelle della “civilissima Europa”, di questo Occidente che si sente guida del mondo e “esporta la democrazia”. Mai come oggi credo si sia visto quanto sia velleitario e pericoloso il paradigma della superiorità occidentale che nonostante tutto, noi discendenti di conquistadores e colonizzatori, ci portiamo dentro. Leopardi è un antidoto potentissimo, a saperlo leggere, a questo veleno.
Il discorso sulla Natura e sulla condizione umana che sviluppa Leopardi nel suo ultimo grande canto ha un valore universale talmente complesso che applicarlo a qualche particolare contingenza storica è sempre rischioso. Ma come tutte le grandi opere universali non smette mai dire quel che ha da dire, e quindi anche oggi vale la pena di leggerla. Qui c’è tutto il testo, ma limitiamoci ad una rilettura della vertiginosa terza strofa, piano piano.
Per prima cosa, Leopardi ci dice che una persona povera e malata non andrà certo a dire in giro di essere ricco e sano: farà, piuttosto, i conti con la sua reale condizione:
Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.
Che dire allora di quegli uomini che scrivono libri pieni di “fetido orgoglio”, e promettono all’umanità delle felicità che non si sono mai viste né in terra né in cielo, quando invece siamo tutti fragilissimi e destinati alla sofferenza, e basta un’onda un po’ più grande, un vento appena un po’ più forte, un terremoto, e interi popoli possono essere spazzati via, senza che ne resti che uno sfocato ricordo?
Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.
Il vero uomo nobile, continua Leopardi, non è quello che diffonde queste stupide illusioni, ma quello che denuncia con franchezza la vera condizione umana, senza togliere nulla alla nuda verità, e ci dice qual è il nostro destino comune e la nostra reale condizione. Siamo fragili, piccoli, debolissimi. Questo uomo saggio, poi, non se la prende con gli altri uomini per i suoi dolori, ma individua la vera colpevole: la Natura, che ci ha creato al dolore e alla morte, indifferente al nostro destino.
Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Nel saggio, da questa consapevolezza deriva un vero amore verso gli altri uomini, perché una è la condizione comune a tutti; quella a cui l’uomo è destinato è una guerra comune, quindi inutile dividersi, bisogna piuttosto unirsi nella fraternità e nella compassione.
Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.
Quando questo sarà chiaro, e siamo giunti alla fine della strofa, quando cioè si capirà che non ha senso individuare il nemico negli altri uomini, perché siamo tutti affratellati nel dolore e nella fragilità, quando questa verità tornerà ad essere conosciuta come lo fu in un antico passato (quando gli uomini si unirono in una “social catena” per sopravvivere), allora la società moderna ritroverà il senso delle parole giustizia e pietà, e smetteremo di raccontarci storie, favole che non possono in alcun modo dare fondamento ad una convivenza veramente civile.
Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.
Da: Giacomo Leopardi, Canti.
Foto: ginestre d’inverno. Dal web.
Poesie per la quarantena / 9
Un pensiero che si fa spesso in questi giorni riguarda il disagio di fronte al dolore altrui. Quanto è lecito sdrammatizzare, godere dei piccoli piaceri quotidiani che pure in quarantena ci sono concessi, provare a coltivare un po’ di bellezza quando tutto intorno sono solo notizie di strazio e paura? quando a Bergamo, per dirne una, i forni crematori non bastano più?
Pensando fra me e me a queste domande (mentre recuperavo, nel malandato giardinetto sotto le scale, un’erba cipollina rispuntata, un rosmarino mezzo secco, residuati della scorsa stagione che in tempi normali avrei forse sostituito senza pietà e oggi mi paiono invece preziosissimi), mi è tornata alla memoria una poesia di Mario Luzi, forse quella che di lui amo di più.
Ricordo di averla scovata in un quaderno di poesie di vari autori che comprai – avrò avuto vent’anni – da un bancarellaro sul lungomare di Civitanova, una sera d’estate. Aprendo a caso mi ritrovai davanti questi versi: dalla festosa notte civitanovese venni catapultato in questa oscura notte danubiana, in questo albergo strampalato, presso questo pianto rimosso dalla nostra coscienza. Ecco la poesia:
Il pianto sentito piangere
nella camera contigua
di notte
nello strampalato albergo
poi dovunque
dovunque
nel buio danubiano
e nel finimondo di colori
di ogni possibile orizzonte
dilagando
oltre tutti i divisori
delle epoche
delle lingue
sentito bene sentito forte
nel suo forte rintocco di eptacordio
e rimesso nel fodero di nebbia
del sonno
e della non coscienza
riposto nel buio nascondiglio
del sapere non voluto sapere
fino a quando?-
Da: Mario Luzi, Per il battesimo dei nostri frammenti, 1985.
Foto: Una bambina a Idlib (ph. by Nazeer Al-Khatib, dal web).
Poesie per la quarantena / 7
Ad una settimana dall’inizio di questa improvvisata rubrica, arriva più forte la domanda messa a tacere sette giorni fa: ma ha senso? Stiamo qui alle finestre, con questa primavera fuori che ci è preclusa, cercando di portare avanti come si può il nostro lavoro quotidiano e la nostra vita di padri, mariti, figli, e pensiamo sempre a chi soffre per la malattia, e a chi soffre per cercare di soccorrere i malati. E noi qui parliamo di poesie. Ha senso? Probabilmente no, non nell’immediato, ora servirebbe qualcosa di più pratico: una mascherina, un macchinario per l’ossigeno, una scoperta scientifica. L’umanista in questi casi si sente inutile, se non d’intralcio. Però guardando al tempo lungo chissà, forse la poesia serve davvero a custodire qualcosa, a traghettare qualcosa dal passato al futuro. Anche a criticare e fare autocritica, quando è necessario. Comunque no, ancora non mi sono convinto che si debba abdicare alla bellezza
Per cui oggi la poesia di oggi è Traducendo Brecht di Franco Fortini.
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più voce. Gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi, mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelle dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.
Poesie per la quarantena / 5
Buona domenica. Probabilmente una delle domeniche più difficili del nostro paese dal dopoguerra (speriamo le prossime siano almeno un pochino migliori). Buona domenica, comunque.
Una volta ho incontrato Franco Arminio, a Loreto, da Zi Nene, un ristorante gestito da una cooperativa che dà lavoro a ragazzi e ragazze diversamente abili. Insieme ad un amico lo abbiamo intervistato, ma poi non siamo riusciti a pubblicare quell’intervista. Arminio è una persona generosa, quando incontra le persone, quando sta sui social, quando gira per i paesi abbandonati, e anche quando scrive poesie: ne scrive a migliaia, credo che scriva sempre. La rete e le biblioteche sono piene di sue poesie. Credo sia anche molto letto, e i poeti con molti lettori (sempre che non siano ciarlatani) sono preziosi in questo tempo in cui la poesia ha così poco spazio.
A me con il suo profilo Facebook, dove pubblica post pieni di saggezza e di amore per l’Italia più marginale, Arminio in questi giorni sta facendo compagnia. Adesso ha anche lanciato una strana iniziativa: ha pubblicato il numero del suo cellulare e dalle nove alle dodici, ogni mattina, risponde agli sconosciuti che lo chiamano per farsi quattro chiacchiere, per farsi compagnia. Magari un giorno gli telefono, se non altro per scusarmi di non essere riuscito a pubblicare quella sua intervista. Ma dicevamo delle poesie. Come molti, Arminio ha scritto anche poesie su questa emergenza, su queste quarantena: si possono trovare in giro. Ma io ne metto qui una più vecchia, non d’occasione, presa da un suo libro di otto anni fa.
La poesia parla dell’importanza di uscire di casa, di incontrare persone, di non stare fermi. Può sembrare paradossale pubblicarla in questi giorni di reclusione forzata, ma non è così: alla fine anche in questi giorni, soprattutto in questi giorni, dobbiamo ricordare e coltivare (come si può) l’arte dell’incontro. Ecco la poesia.
Io dico che si deve partire da un punto qualunque
per esempio dal fatto che alle nove del mattino
puoi andare in un paese vicino e sentire
quello che dicono al bar un postino
un muratore un vecchio ammalato
e poi ti rimetti in moto sapendo che la giornata
una giornata qualsiasi è il tuo splendore.*
Franco Arminio, Stato in luogo, Transeuropa, 2012.
La foto è tratta dal profilo Facebook di Franco Arminio, immagino che l’abbia fatta lui.
* La poesia è stata ripubblica dall’autore in Cedi la strada agli alberi, Chiarelettere 2017, con qualche piccola variante e soprattutto l’aggiunta di questa terzina finale:
Abbi cura di andare in giro
non restare fermo come uno straccio
sotto il ferro da stiro.
Poesie per la quarantena / 4
Non sono mai stato un gran giardiniere. L’anno scorso con M. abbiamo comprato questo geranio, che ha attraversato più o meno incolume questo mite inverno senza ricevere nessuna cura, abbandonato nel nostro giardinetto che è poco più di un sottoscala. La pioggia è stata poca, e l’acqua data dall’uomo anche di meno. Eppure stamattina ho visto sbocciare questo piccolo fiore, del colore che a M. era tanto piaciuto.
L’attaccamento alla vita di tutti gli esseri viventi, fiori o uomini (e un po’ anche quella di esseri semiviventi come i virus, per certi versi) è sempre affascinante. E commovente nella sua apparente insensatezza. E nella sua meraviglia, se per esempio un venerdì 13 di un anno bisesto e funesto, nel mezzo dell’imperversare di un’epidemia, un bambino decide di venire al mondo e cominciare a lottare. Ma anche nella sua crudeltà e nel suo cinismo di tante volte: mors tua vita mea, per questa volta non è toccato a me, ancora no, ancora no. Sempre di vita si tratta, lotta stupore fatica paura, costruzione e distruzione.
E quanto siamo attaccati alla vita oggi, noi piccoli esseri umani, in quella che tanti stanno paragonando a una guerra. E dunque la poesia di oggi è un grande classico della poesia di guerra, con quella meravigliosa capacità di Ungaretti di parlare di cose enormi e indicibili con la semplicità di un bambino. Si intitola Veglia, e Ungaretti l’ha scritta dentro una trincea durante la Prima Guerra Mondiale.
Un’intera nottata
buttato vicino
a un compagno
massacrato
con la sua bocca
digrignata
volta al plenilunio
con la congestione
delle sue mani
penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore
Non sono mai stato
tanto
attaccato alla vita
Da Giuseppe Ungaretti, L’allegria. La foto, questa volta, è mia.
Poesie per la quarantena / 3
Vedendo questa straordinaria e terribile foto di una infermiera che crolla davanti al terminale dopo un turno di notte in uno degli ospedali che più sono stati travolti dall’emergenza coronavirus, mi è venuta in mente una frase del poeta serbo Izet Sarajlić, che parlando del lungo assedio di Sarajevo durante la guerra dei Balcani, disse una volta: “Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti”. Parlava di quelli come lui che durante l’assedio erano rimasti lì, e avevano provato a far sopravvivere un po’ di umanità. Stavolta l’espressione non è metaforica, e i turni di notte li fanno infermieri e medici costretti a immettere forti dosi di eroismo e temerarietà nelle loro vite (vite che loro probabilmente vorrebbero invece normali, normalissime). Triste il mondo che ha bisogno di eroi. E di eroi che non volevano nemmeno esserlo.
Fra le poesie di Sarajlić ce n’è una che amo molto, mi sa che l’ho già messa da qualche parte in questo blog, e anche questa può servirci per ragionare su questo tempo, in particolare a me fa pensare ai tanti, troppi morti, e a quella orribile specificazione che ci danno sempre per rassicurarci (ma ormai non ci rassicura nemmeno più): erano anziani, molto anziani, avevano altre patologie…
La poesia in questione parla della moglie del poeta, morta pochi anni dopo la fine dell’assedio. Nella poesia Sarajlić dice più o meno: “quanto sarebbe meglio se fossimo ancora sotto le bombe, perché quando eravamo sotto le bombe eravamo insieme, e avevamo ancora anni insieme da vivere. Adesso invece c’è la pace, e non ci sei tu, che me ne faccio allora della pace?”. Il poeta e la moglie erano anziani, acciaccati, ma anche se sei anziano e acciaccato quel tempo è preziosissimo, ogni giorno; non è che allora se arriva un virus sconosciuto e ti porta via non fa niente perché tanto non sei un ragazzino e avevi magari qualche acciacco. C’è sempre un mondo che finisce, dietro ogni numero. Ecco la poesia:
Fosse almeno quel terribile,
per l’umiliazione a nulla paragonabile
anno 1993
quando non avevamo nient’altro
che l’un l’altro.
Magari fosse ancora quel terribile,
quel tante volte maledetto anno 1993!
Avrei ancora cinque anni pieni
da poterti guardare
e da tenerti per mano!
da Izet Sarajlić, Chi ha fatto il turno di notte, a cura di Silvio Ferrari, Torino, Einaudi 2012, p. 111. La foto stavolta non è dei miei genitori, ma di una dottoressa dell’ospedale di Cremona.