Ad una settimana dall’inizio di questa improvvisata rubrica, arriva più forte la domanda messa a tacere sette giorni fa: ma ha senso? Stiamo qui alle finestre, con questa primavera fuori che ci è preclusa, cercando di portare avanti come si può il nostro lavoro quotidiano e la nostra vita di padri, mariti, figli, e pensiamo sempre a chi soffre per la malattia, e a chi soffre per cercare di soccorrere i malati. E noi qui parliamo di poesie. Ha senso? Probabilmente no, non nell’immediato, ora servirebbe qualcosa di più pratico: una mascherina, un macchinario per l’ossigeno, una scoperta scientifica. L’umanista in questi casi si sente inutile, se non d’intralcio. Però guardando al tempo lungo chissà, forse la poesia serve davvero a custodire qualcosa, a traghettare qualcosa dal passato al futuro. Anche a criticare e fare autocritica, quando è necessario. Comunque no, ancora non mi sono convinto che si debba abdicare alla bellezza
Per cui oggi la poesia di oggi è Traducendo Brecht di Franco Fortini.
Un grande temporale
per tutto il pomeriggio si è attorcigliato
sui tetti prima di rompere in lampi, acqua.
Fissavo versi di cemento e di vetro
dov’erano piaghe murate e membra
anche di me, cui sopravvivo. Con cautela, guardando
ora i tegoli battagliati ora la pagina secca,
ascoltavo morire
la parola d’un poeta o mutarsi
in altra, non per noi più voce. Gli oppressori tranquilli
parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso
credo di non sapere più di chi è la colpa.
Scrivi, mi dico, odia
chi con dolcezza guida al niente
gli uomini e le donne che con te si accompagnano
e credono di non sapere. Fra quelle dei nemici
scrivi anche il tuo nome. Il temporale
è sparito con enfasi. La natura
per imitare le battaglie è troppo debole. La poesia
non muta nulla. Nulla è sicuro, ma scrivi.