Poesie per la quarantena / 11

ginestre d'inverno

“Qui mira e qui ti specchia / secol superbo e sciocco”: Leopardi, in questi versi della Ginestra, invita l’Ottocento a osservare le pendici del Vesuvio devastate dalla lava, e a rispecchiare in quella devastazione la sua stupida superbia. Perché, di fronte alla forza della natura, ogni superbia umana non può che dimostrarsi stupida. Il coronavirus è solo una manifestazione, particolarmente subdola perché invisibile e incontrollabile, della superiore potenza della natura. Di fronte a questa potenza, i singoli e gli Stati che dicono “andrà tutto bene”, “qui non succederà niente”, “andiamo avanti come prima”, mostrano i limiti di una cultura incapace di fermarsi, di fare con umiltà i conti con la propria relativa impotenza. Abbiamo continuato, finché è stato possibile, a far girare il meccanismo impazzito delle “magnifiche sorti e progressive”, ma alla fine abbiamo dovuto prendere atto (troppo tardi) di quel che stava succedendo. In questo senso le civiltà orientali (Giappone, Corea del Sud) hanno mostrato una consapevolezza culturale, una dimensione civile molto più forte di quelle della “civilissima Europa”, di questo Occidente che si sente guida del mondo e “esporta la democrazia”. Mai come oggi credo si sia visto quanto sia velleitario e pericoloso il paradigma della superiorità occidentale che nonostante tutto, noi discendenti di conquistadores e colonizzatori, ci portiamo dentro. Leopardi è un antidoto potentissimo, a saperlo leggere, a questo veleno.

Il discorso sulla Natura e sulla condizione umana che sviluppa Leopardi nel suo ultimo grande canto ha un valore universale talmente complesso che applicarlo a qualche particolare contingenza storica è sempre rischioso. Ma come tutte le grandi opere universali non smette mai dire quel che ha da dire, e quindi anche oggi vale la pena di leggerla. Qui c’è tutto il testo, ma limitiamoci ad una rilettura della vertiginosa terza strofa, piano piano.

Per prima cosa, Leopardi ci dice che una persona povera e malata non andrà certo a dire in giro di essere ricco e sano: farà, piuttosto, i conti con la sua reale condizione:

Uom di povero stato e membra inferme
Che sia dell’alma generoso ed alto,
Non chiama se nè stima
Ricco d’or nè gagliardo,
E di splendida vita o di valente
Persona infra la gente
Non fa risibil mostra;
Ma se di forza e di tesor mendico
Lascia parer senza vergogna, e noma
Parlando, apertamente, e di sue cose
Fa stima al vero uguale.

Che dire allora di quegli uomini che scrivono libri pieni di “fetido orgoglio”, e promettono all’umanità delle felicità che non si sono mai viste né in terra né in cielo, quando invece siamo tutti fragilissimi e destinati alla sofferenza, e basta un’onda un po’ più grande, un vento appena un po’ più forte, un terremoto, e interi popoli possono essere spazzati via, senza che ne resti che uno sfocato ricordo?

Magnanimo animale
Non credo io già, ma stolto,
Quel che nato a perir, nutrito in pene,
Dice, a goder son fatto,
E di fetido orgoglio
Empie le carte, eccelsi fati e nove
Felicità, quali il ciel tutto ignora,
Non pur quest’orbe, promettendo in terra
A popoli che un’onda
Di mar commosso, un fiato
D’aura maligna, un sotterraneo crollo
Distrugge sì, che avanza
A gran pena di lor la rimembranza.

Il vero uomo nobile, continua Leopardi, non è quello che diffonde queste stupide illusioni, ma quello che denuncia con franchezza la vera condizione umana, senza togliere nulla alla nuda verità, e ci dice qual è il nostro destino comune e la nostra reale condizione. Siamo fragili, piccoli, debolissimi. Questo uomo saggio, poi, non se la prende con gli altri uomini per i suoi dolori, ma individua la vera colpevole: la Natura, che ci ha creato al dolore e alla morte, indifferente al nostro destino.

Nobil natura è quella
Che a sollevar s’ardisce
Gli occhi mortali incontra
Al comun fato, e che con franca lingua,
Nulla al ver detraendo,
Confessa il mal che ci fu dato in sorte,
E il basso stato e frale;
Quella che grande e forte
Mostra se nel soffrir, nè gli odii e l’ire
Fraterne, ancor più gravi
D’ogni altro danno, accresce
Alle miserie sue, l’uomo incolpando
Del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.

Nel saggio, da questa consapevolezza deriva un vero amore verso gli altri uomini, perché una è la condizione comune a tutti; quella a cui l’uomo è destinato è una guerra comune, quindi inutile dividersi, bisogna piuttosto unirsi nella fraternità e nella compassione.

Costei chiama inimica; e incontro a questa
Congiunta esser pensando,
Siccome è il vero, ed ordinata in pria
L’umana compagnia,
Tutti fra se confederati estima
Gli uomini, e tutti abbraccia
Con vero amor, porgendo
Valida e pronta ed aspettando aita
Negli alterni perigli e nelle angosce
Della guerra comune. Ed alle offese
Dell’uomo armar la destra, e laccio porre
Al vicino ed inciampo,
Stolto crede così, qual fora in campo
Cinto d’oste contraria, in sul più vivo
Incalzar degli assalti,
Gl’inimici obbliando, acerbe gare
Imprender con gli amici,
E sparger fuga e fulminar col brando
Infra i propri guerrieri.

Quando questo sarà chiaro, e siamo giunti alla fine della strofa, quando cioè si capirà che non ha senso individuare il nemico negli altri uomini, perché siamo tutti affratellati nel dolore e nella fragilità, quando questa verità tornerà ad essere conosciuta come lo fu in un antico passato (quando gli uomini si unirono in una “social catena” per sopravvivere), allora la società moderna ritroverà il senso delle parole giustizia e pietà, e smetteremo di raccontarci storie, favole che non possono in alcun modo dare fondamento ad una convivenza veramente civile.

Così fatti pensieri
Quando fien, come fur, palesi al volgo,
E quell’orror che primo
Contra l’empia natura
Strinse i mortali in social catena,
Fia ricondotto in parte
Da verace saper, l’onesto e il retto
Conversar cittadino,
E giustizia e pietade, altra radice
Avranno allor che non superbe fole,
Ove fondata probità del volgo
Così star suole in piede
Quale star può quel ch’ha in error la sede.

Da: Giacomo Leopardi, Canti.

Foto: ginestre d’inverno. Dal web.

Reputarsi vincenti, oggi.

Non so, ma mi pare che ultimamente la fabbrica del gossip stia producendo figure che lambiscono i territori del tragico. Perché, se ho qualche dubbio a collocarci quel dannunziano (dannunziano illetterato) di Fabrizio Corona, che certamente sta facendo di tutto per diventare l’emblema di un’epoca (il che la dice lunga soprattutto sull’epoca), non saprei in quali altri territori collocare questa poveraccia. E non lo dico solo io che di questa persona fino a ieri praticamente ignoravo l’esistenza, ma anche uno che di certe cose ci capisce.

 

 

 

May and June

Prima stavo leggendo un articolo su Internazionale che parlava dei recenti referendum che hanno introdotto i matrimoni gay in alcuni stati degli USA. Sulla pagina campeggiava una foto molto americana, ma anche molto bella. Questa:

Per un attimo ho provato a immaginare la storia di queste due persone. Non so perché ma mi è venuto da dar loro anche dei nomi che non so nemmeno se esistono (May e June), e mi sono chiesto quali storie, quali amori e quali dolori ci possano essere dietro quelle espressioni stanche e felici, dietro quelle dita intrecciate. Provate a farlo anche voi. E, alla luce della storia che sarete in grado di immaginare, ditemi cosa ne pensereste di una famiglia formata da May e June.

Postilla. La cronaca di questi giorni dice che questo post è tragicamente sul pezzo…

Tutto come da copione

Succede un fatto terribile, che sconvolge (come è ovvio) un’intera comunità (e chi scrive), qualche giovane fascista ci vede una bella occasione per ottenere visibilità invocando la pena di morte (ma a questo punto non sarebbe meglio un bel linciaggio come ai vecchi tempi, magari con tanto di cartolina commemorativa?), e la stampa online locale soffia sul fuoco, per qualche contatto in più.

Non sarebbe meglio ragionare su come fare in modo che gli assassini siano presi e paghino il giusto, in un paese dove carceri e giustizia funzionino veramente (non così, ad esempio)?

Bella addormentata

Ho visto Bella addormentata la sera in cui è uscito nelle sale. Anzi: la sera prima, perché il multisala dove ero andato per vedere l’ennesimo film sulla scuola aveva deciso di anticipare di un giorno la proiezione dell’opera di Bellocchio. Questo non significa che l’abbia visto per sbaglio: ci sarei andato comunque e comunque prima possibile, perché il tema mi è sempre stato molto caro, perché Bellocchio è un regista che non sempre capisco ma che sempre mi interroga, e anche perché Bella addormentata è uno di quei film che quando l’hai visto poi hai qualcosa di cui parlare con gli amici per qualche mese almeno. Ci sarei andato lo stesso, dunque, ma il contrattempo ha avuto, in ogni caso, delle conseguenze sulla visione, per due motivi. Primo motivo: non ero assolutamente preparato al film; né la ragione né le emozioni erano state allertate, e sono stato catapultato in un mondo che non era quello che pensavo avrei abitato quella sera. Secondo motivo:  andavo al cinema con una compagnia un po’ diversa dal solito; si doveva vedere un film sulla scuola e stavo, guarda caso, fra insegnanti; e nella compagnia c’era un fervente cattolico molto attento all’ortodossia, e una donna appena reduce da un lutto, costretta a sperimentare sulla pelle di una persona cara la brutale concretezza di espressioni apparentemente algide come “interruzione dell’accanimento terapeutico”. C’erano, dunque, le premesse per un’esperienza forte. E tale è stata, in effetti.

A me, tanto vale dirlo subito, il film è piaciuto moltissimo. Anzi: pur nella imperfezione di tanti aspetti singoli, mi è sembrato un film perfetto. Spiego: Bellocchio secondo me si è fatto carico di una sfida quasi impossibile: trattare in un’opera d’arte un caso umano (o di cronaca, o politico, o giudiziario, o culturale, o non so come altro definirlo) così tormentoso e complesso come quello di Eluana Englaro, e del filo di vita e di morte che l’ha legata per tanti anni al padre Beppino (e non solo a lui). Era, obiettivamente, qualcosa di difficilissimo. Fra i pericoli dell’apologo morale da una parte e dell’estetica da fiction dall’altra, non c’erano molte strade, forse una soltanto, e quella strada secondo me Bellocchio l’ha saputa percorrere. Per questo dico che è un film perfetto, perché è forse l’unico film che su questo tema si potesse fare. Per realizzarlo Bellocchio non solo ha tolto il corpo e i volti dei protagonisti veri dalla scena (scelta per tanti  versi necessaria); ha anche riempito il film – come è nella sua poetica – di personaggi che non si preoccupano mai di sembrare realistici ma che sono, nella trasfigurazione dell’arte, sempre (o almeno: molto spesso) veri. Sono personaggi esagerati, spesso nevrotici, a volte disturbati e disturbanti, sempre terribilmente inquieti e fragili di fronte ai problemi ultimi. Ritratti deformati di tutti noi, alla fin fine.

Accanto a questo, c’è anche un discorso sulla società. Non propriamente un discorso politico, ma sulla crisi di cultura e di umanità che attanaglia il nostro vivere di italiani di oggi, e che trova nella politica, se non altro, uno specchio. Partiamo da un dettaglio, che poi tanto dettaglio non è: molti dei personaggi del film sono costretti dal regista a fare i conti con la presenza ossessiva di schermi televisivi che proiettano le loro luci livide e spettrali su corpi, volti, oggetti. In una scena misteriosa e affascinante due uomini (un fratello, un padre) completamente proiettati su sé stessi, sulle loro ambizioni e sulle loro sconfitte, anche di fronte al coma della sorella, alla follia della moglie, rimangono attoniti a guardare su uno schermo enorme le evoluzioni sottomarine di giganteschi e inquietanti ippopotami. Ma è soprattutto nelle stanze della politica – attraversate dal sempre bravissimo Toni Servillo – che la televisione è onnipresente. Nell’era berlusconiana (di cui il film compone il ritratto più convincente che mi sia stato dato di vedere) la televisione è onnipresente, dalle stanze del potere all’ultimo tinello: in ogni stanza del Palazzo vengono trasmessi i tg o i discorsi dei parlamentari (quasi a dire che tali discorsi hanno ragion d’essere solo se teletrasmessi); persino nel surreale bagno turco che è teatro di alcune fra le scene più riuscite del film (ad esempio l’ormai noto dialogo fra il Senatore-Servillo e lo Psichiatra-Herlitzka) c’è sempre uno schermo su cui scorrono informazioni relative ai lavori dell’Aula; in un’altra scena i politici di Forza Italia si fanno una foto, ma i loro veri volti sono oscurati dalla proiezione di un filmino propagandistico. Fino ad un momento che m’è parso geniale: un personaggio sta per entrare nell’Aula del Parlamento, e sta davanti ad una grande ed elegante porta di legno, la porta si apre e dentro si vede, invece dell’aula, una riproduzione video (piuttosto sgranata) della stessa.

Il film mi pare, insomma, la metafora di un paese che ha perso la sua umanità, senza guida etica e morale; la massa imbestiata dal rincitrullimento televisivo, gli individui lasciati soli con le loro cose e le loro idee, le loro idiosincrasie, le loro nevrotiche paure. Non mi è sembrato, invece, un film (solo) sui problemi etici, tanto meno un film che su quei problemi vuole dirci la sua verità, o darci la sua ricetta. Forse ci chiede solo, in assenza della struttura etica e politica necessaria ad un paese per affrontarli con serenità, di non strumentalizzarli a fini di parte.

Mi pare anche che sia un film sui confini, e sulla loro essenza labile, equivoca. Le cose, lì sul bordo, non sempre sono semplici e chiare, e non sempre sono quel che sembrano. Di fronte a quel tremendo e intimo momento in cui un essere umano smette di vivere, be’, dire qualche verità assoluta è molto rischioso, e evitare equivoci non è facile. In conclusione, dopo il film mi viene da ribadire ancora una volta quel poco che da tempo sostengo, su questi argomenti: come sembra volerci dire anche l’epilogo della vicenda umana del Cardinale Martini, quei momenti non possono essere di altri che del morente e di chi, con lui, ha condiviso una vita di legami e di affetti. E nessun potere, politico o religioso, può rivendicare la proprietà e la giurisdizione su quel territorio.

Dopo aver visto il film, ho letto qualche recensione (non molte in verità). Fra tutte mi ha stupito quella, inutilmente livorosa (fin dal titolo) e priva di qualsiasi empatia artistica, di Michela Murgia, che legge il film solo con gli occhi delle categorie politico-religiose (cattolici e laici, radicali e clericali…), senza nessuno sforzo per cercare di entrare nel mondo del regista. Ha dell’incredibile, se penso che la Murgia è l’autrice di Accabadora, libro che ho amato molto, e molto ho raccomandato proprio per la sensibilità con cui accosta temi complessi quali l’eutanasia. Comunque ho capito che con i consigli di lettura e di visione dell’autrice sarda devo andarci molto cauto: una sua prefazione al romanzo L’ultima tentazione di Cristo, anticipata sul suo blog (e che mi era piaciuta parecchio), mi ha già spinto, l’estate scorsa, ad una delle letture più faticose e aride degli ultimi anni: quello di Kazantzakis è un libro noioso, di troppe pagine e di poche idee, che non merita certo i soldi necessari ad acquistare la ristampa niente affatto economica prefata dalla Murgia. Ve lo dico: sono soldi sprecati: usateli piuttosto per andare a vedere il film di Bellocchio; e vi resteranno anche gli spiccioli per i popcorn.

Molto bella, invece, la recensione di Gianluca. Anche se forse non è bello citarsi a vicenda…

Se poi volete la recensione di un critico cinematografico vero…

Sguardi italiani

In cima si cono gli occhi spenti dei vecchi che comandano, senza saggezza e senza autorità, impauriti dal loro stesso potere immeritato, che non sanno gestire. Si circondano di coetanei dagli occhi rancorosi, o di giovani dallo sguardo feroce e impaurito, candidati alla successione, destinati alla sottomissione. Al gradino inferiore gli occhi anonimi e sfuggenti della massa, i condannati dell’età di mezzo: i cinquantenni dagli occhi duri e spietati, che difendono con le zanne aguzze la loro catena d’oro; i quarantenni sprecati, occhi opachi e storti, divisi fra ansia e rassegnazione, delusi dalle lunghe speranze e non ancora arresi all’inevitabile cinismo; e poi i trentenni che procedono a tentoni, emarginati o più spesso tagliati fuori, sconfitti prima ancora di giocare. Sotto, molto più giù, i ventenni che vedono tutto e capiscono tutto, con i loro occhi sbarrati, che si difendono come possono, rinunciando alle passioni o portandole all’estremo. E infine i diciannovenni, i diciottenni, i diciassettenni, i sedicenni, i quindicenni, i quattordicenni… con negli occhi una luce che ti chiedi quanto durerà, ancora.

Che barba, che noia!

Mario Monti, Primo Ministro della Repubblica Italiana, ha detto una cosa condivisibile: fare per tutta la vita lo stesso lavoro è una noia. E’ vero: per quanto un lavoro ti possa piacere, arriva sempre il momento in cui diventa routine, ripetizione. Noia, appunto. Figurati poi se sei costretto a fare un lavoro che non ti piace, o un lavoro molto faticoso, o un lavoro malpagato: meglio cambiare, no? Dice nonno Mario.

Michel Martone, Vice Ministro del Welfare della Repubblica Italiana, ha detto una cosa condivisibile: laurearsi dopo i ventotto anni è da sfigati: a quell’età bisogna essere già pronti da un pezzo ad affrontare la vita, con un’esperienza lavorativa alle spalle, qualche master, esperienze all’estero e un’ampia e solida rete di conoscenze e relazioni. Se a ventotto anni stai ancora lì a barcamenarti fra esami e tasse per fuori corso, è difficile che mi diventi professore ordinario all’università a 31 e viceministro a 37. Datti una mossa, fai come me! Dice il giovane professore Michel (fra parentesi: leggeteli i giudizi che hanno dato i professori sul candidato Martone: chiunque conosca queste cose sa che di solito con giudizi così severi non si diventa nemmeno ricercatori, nemmeno dottorandi – del resto Michel l’ha ammesso di essere un privilegiato figlio di papà, e di essersi limitato a cercare di meritarsi questi privilegi lavorando sodo… be’, ci manca pure che non ti sforzi di meritarteli, i tuoi privilegi, dico io! Cfr. la versione martoniana di “Sono un ragazzo fortunato”, al minuto 25.30).

L’esperienza personale mi porta comunque a dar loro ragione: ho sempre vissuto con un giustificato senso di colpa l’essermi laureato a 26 anni (vabbe’ lavoravo, vabbe’ facevo anche volontariato, vabbe’ ho fatto una complessa tesi di ricerca che solo quella ci ho messo un anno, ma potevo comunque sbrigarmi di più, perdere meno tempo, quelli sono anni preziosi e decisivi, eccetera). Inoltre, ogni tanto penso anche che mi piacerebbe fare esperienze lavorative diverse da quella, pur molto gratificante (al netto di tutto), di insegnante nella scuola pubblica italiana, mestiere che invece probabilmente farò per i prossimi trent’anni a venire, forse ventotto se va bene: cacchio! sta nascendo oggi lo sfigato che si laureerà il giorno della mia pensione!.

Ma io, Mario e Michel, nel fare queste considerazioni condivisibili condivisibilissime, non teniamo conto di un fatto: che Michel, Mario e io siamo dei privilegiati (chi molto di più, chi molto di meno). Io ho avuto dei genitori operai disposti a fare sacrifici enormi per far laureare tre figli, ho scelto una facoltà che dava pochi sbocchi lavorativi come lettere, eppure ho iniziato abbastanza presto a guadagnare e a meno di trent’anni ho potuto fare un concorso e diventare professore di ruolo; non sono molti quelli che hanno avuto la stessa fortuna. Sulla condizione di privilegio di Mario e Michel si è detto già molto in questi giorni e non mi dilungo.

Però… Però questo governo, che all’inizio mi aveva molto colpito, in positivo, per i modi e per il linguaggio così diversi da quelli del governo precedente, proprio con i modi e il linguaggio ha mostrato il suo vero limite, quello di essere fatto da gente che non ha, né per esperienza personale né per necessità di raccogliere consensi, un contatto vero con la realtà del paese. Chi è abituato ad una vita da studioso di successo o da figlio di un grande papavero della pubblica amministrazione, chi ha sempre frequentato circoli élitari (non chiamiamole cricche, mi raccomando, che suona brutto…) non sa, non può sapere cosa significhi veramente per la massa dei cittadini, degli studenti, dei giovani normali, senza patrimoni alle spalle e santi in paradiso, studiare, laurearsi, lavorare da precari o – sempre più spesso – non lavorare affatto.

Si dirà: sono tecnici, sono abituati a studiare la società sui libri, sui numeri, in astratto, producendo modelli teorici bellissimi, non possiamo chiedergli di rendersi pure conto di come vive davvero la ggente: del resto li abbiamo costretti noi a uscire dalla torre d’avorio per salvare il paese, dobbiamo capirli, anche quando la loro fragile psiche di studiosi mostra segni di cedimento…  Vero, forse. Magari loro possiamo capirli. Meno facile però è capire che questo senso del paese reale manchi anche a quelle istituzioni, i partiti, che dovrebbero proprio fare da tramite tra i cittadini e chi a nome (e nell’interesse) dei cittadini prende (dovrebbe prendere) le decisioni. Tanto più se sono partiti di sinistra, o giù di lì.

Tutto questo per arrivare a dire che un anno e mezzo fa sono entrato, fra entusiasmo (calante) e perplessità (crescenti), nel direttivo del Partito Democratico di Recanati. Alla prima riunione un giovane e brillante avvocato ha chiesto e si è chiesto come mai nel direttivo non ci fosse nessun operaio. Domanda che ho trovato molto interessante. Ancora nessuna risposta.