Che barba, che noia!

Mario Monti, Primo Ministro della Repubblica Italiana, ha detto una cosa condivisibile: fare per tutta la vita lo stesso lavoro è una noia. E’ vero: per quanto un lavoro ti possa piacere, arriva sempre il momento in cui diventa routine, ripetizione. Noia, appunto. Figurati poi se sei costretto a fare un lavoro che non ti piace, o un lavoro molto faticoso, o un lavoro malpagato: meglio cambiare, no? Dice nonno Mario.

Michel Martone, Vice Ministro del Welfare della Repubblica Italiana, ha detto una cosa condivisibile: laurearsi dopo i ventotto anni è da sfigati: a quell’età bisogna essere già pronti da un pezzo ad affrontare la vita, con un’esperienza lavorativa alle spalle, qualche master, esperienze all’estero e un’ampia e solida rete di conoscenze e relazioni. Se a ventotto anni stai ancora lì a barcamenarti fra esami e tasse per fuori corso, è difficile che mi diventi professore ordinario all’università a 31 e viceministro a 37. Datti una mossa, fai come me! Dice il giovane professore Michel (fra parentesi: leggeteli i giudizi che hanno dato i professori sul candidato Martone: chiunque conosca queste cose sa che di solito con giudizi così severi non si diventa nemmeno ricercatori, nemmeno dottorandi – del resto Michel l’ha ammesso di essere un privilegiato figlio di papà, e di essersi limitato a cercare di meritarsi questi privilegi lavorando sodo… be’, ci manca pure che non ti sforzi di meritarteli, i tuoi privilegi, dico io! Cfr. la versione martoniana di “Sono un ragazzo fortunato”, al minuto 25.30).

L’esperienza personale mi porta comunque a dar loro ragione: ho sempre vissuto con un giustificato senso di colpa l’essermi laureato a 26 anni (vabbe’ lavoravo, vabbe’ facevo anche volontariato, vabbe’ ho fatto una complessa tesi di ricerca che solo quella ci ho messo un anno, ma potevo comunque sbrigarmi di più, perdere meno tempo, quelli sono anni preziosi e decisivi, eccetera). Inoltre, ogni tanto penso anche che mi piacerebbe fare esperienze lavorative diverse da quella, pur molto gratificante (al netto di tutto), di insegnante nella scuola pubblica italiana, mestiere che invece probabilmente farò per i prossimi trent’anni a venire, forse ventotto se va bene: cacchio! sta nascendo oggi lo sfigato che si laureerà il giorno della mia pensione!.

Ma io, Mario e Michel, nel fare queste considerazioni condivisibili condivisibilissime, non teniamo conto di un fatto: che Michel, Mario e io siamo dei privilegiati (chi molto di più, chi molto di meno). Io ho avuto dei genitori operai disposti a fare sacrifici enormi per far laureare tre figli, ho scelto una facoltà che dava pochi sbocchi lavorativi come lettere, eppure ho iniziato abbastanza presto a guadagnare e a meno di trent’anni ho potuto fare un concorso e diventare professore di ruolo; non sono molti quelli che hanno avuto la stessa fortuna. Sulla condizione di privilegio di Mario e Michel si è detto già molto in questi giorni e non mi dilungo.

Però… Però questo governo, che all’inizio mi aveva molto colpito, in positivo, per i modi e per il linguaggio così diversi da quelli del governo precedente, proprio con i modi e il linguaggio ha mostrato il suo vero limite, quello di essere fatto da gente che non ha, né per esperienza personale né per necessità di raccogliere consensi, un contatto vero con la realtà del paese. Chi è abituato ad una vita da studioso di successo o da figlio di un grande papavero della pubblica amministrazione, chi ha sempre frequentato circoli élitari (non chiamiamole cricche, mi raccomando, che suona brutto…) non sa, non può sapere cosa significhi veramente per la massa dei cittadini, degli studenti, dei giovani normali, senza patrimoni alle spalle e santi in paradiso, studiare, laurearsi, lavorare da precari o – sempre più spesso – non lavorare affatto.

Si dirà: sono tecnici, sono abituati a studiare la società sui libri, sui numeri, in astratto, producendo modelli teorici bellissimi, non possiamo chiedergli di rendersi pure conto di come vive davvero la ggente: del resto li abbiamo costretti noi a uscire dalla torre d’avorio per salvare il paese, dobbiamo capirli, anche quando la loro fragile psiche di studiosi mostra segni di cedimento…  Vero, forse. Magari loro possiamo capirli. Meno facile però è capire che questo senso del paese reale manchi anche a quelle istituzioni, i partiti, che dovrebbero proprio fare da tramite tra i cittadini e chi a nome (e nell’interesse) dei cittadini prende (dovrebbe prendere) le decisioni. Tanto più se sono partiti di sinistra, o giù di lì.

Tutto questo per arrivare a dire che un anno e mezzo fa sono entrato, fra entusiasmo (calante) e perplessità (crescenti), nel direttivo del Partito Democratico di Recanati. Alla prima riunione un giovane e brillante avvocato ha chiesto e si è chiesto come mai nel direttivo non ci fosse nessun operaio. Domanda che ho trovato molto interessante. Ancora nessuna risposta.