L’anima altrove

Sono settimane intense: gli incontri di riflessione, formazione , confronto si accavallano. Alcuni, come questo, sono anche l’occasione per far incontrare esperienze e persone a me molto care, con cui ho lavorato negli anni in contesti diversi, accomunati però tutti (i contesti e le persone) dall’amore per la scuola, la storia e la letteratura. Come al solito, avrò/avremo moltissimo da imparare…

GIOVEDI’ 24 FEBBRAIO ORE 16

L’ANIMA ALTROVE – STORIE E MEMORIE DELL’ESODO

SILVIA TATTI E MARIA CRISTINA BENUSSI

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(ALTRI DETTAGLI NELLA LOCANDINA)

I Malavoglia

Anche quest’anno, dopo Una questione privata e dopo La Liberata, continuiamo, con Antonio Mingarelli e le ragazze e i ragazzi del liceo scientifico “Galilei” di Macerata, l’esplorazione della letteratura italiana attraverso il teatro. Ogni volta la scommessa è più difficile, ogni volta ci si sente in bilico fra ispirazione e incoscienza, ma questa volta davvero era (è) difficile trasportare la storia di Ntoni, Lia, Luca, Mena, Alessi, La Longa, compare Alfio, Bastianazzo e tutti gli altri poveri cristi di Aci Trezza nelle nostre Marche del 2017. Ci aiuterà, come al solito, il talento e la grazia dei giovani protagonisti, e quest’anno in più anche lo sfondo del mare di Porto Potenza, che nelle sere di giugno si colora spesso di tonalità bellissime.

Per chi vuole vedere cosa è venuto fuori quest’anno dal laboratorio teatrale “Cronache terrestri”, l’appuntamento è per domenica 11 giugno, alle 19, al circolo il Faro di Porto Potenza Picena, sulla passeggiata a mare, un po’ a nord della chiesa e della torre di Sant’Anna. E chi non può venire l’11, sarà il benvenuto alla prova generale aperta della sera prima, stessa ora.

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Da dove ricominciare

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Questi sono i giorni in cui, nella fascia di territorio dove mi trovo io – non tanto vicina all’epicentro del sisma da esserne stata devastata, non abbastanza lontana da non esserne stata coinvolta – si prova a tornare ad una qualche forma di normalità, della quale tutti hanno bisogno, anche a costo di costruirsene una un po’ farlocca.

Riaprire le scuole, in questo senso, è un passaggio importante, anche se siamo tutti un po’ tesi. Una mia collega di rara sensibilità, Laura, scriveva poco fa su facebook:

Così oggi a Macerata abbiamo ripreso. Tra i banchi si distinguevano le facce di chi, come me, ha avuto solo paura, da quelle degli alunni di paesi come Sarnano,Tolentino, San Severino, in cui si leggeva un reale dolore, la mancanza dell’orizzonte conosciuto. Qualcuno non c’era, perché ospite di parenti lontani, in attesa di una sistemazione migliore. Spesso ci si è trovati a sobbalzare al minimo rumore. Ma c’era anche, mi è sembrato, la contentezza di ricominciare, una richiesta di fissare in anticipo le verifiche con un clima diverso dall’ansia consueta. Perché, si è capito meglio, la tragedia non è la verifica. E perché, mi pare, si era felici di ritrovarsi, perché nessuno aveva qualcuno da piangere, perché insieme le cose sembrano più semplici.
Spero che al più presto riaprano tutte le scuole, spero che il guardarci negli occhi possa essere d’aiuto a chi è più provato, spero che questa amata terra, di cui comunque anche adesso non si parla troppo, torni all’anonimato delle sue dolci colline, alle chiacchiere di paese, al lavoro.

E così, nelle scuole e negli altri luoghi di cultura, nell’attesa che si possano ricostruire i muri, si prova a cominciare anche a progettare una ricostruzione simbolica. Questo, ad esempio, è il messaggio che compare oggi sul sito dell’Istituto Storico di Macerata:

L’Istituto Storico della Resistenza e dell’Età Contemporanea  di Macerata vuole offrire il suo contributo per la rinascita delle comunità appenniniche colpite dal sisma: lavorare insieme perché non perdano l’identità e la propria storia; perché insieme alle case, alle strade, ai ponti si ricostruiscano altre infrastrutture, quelle civiche, come la fiducia e il senso di appartenenza: “sono cose –come afferma lo scrittore giapponese Haruki Murakami- che non possiedono una forma fisica. Una volta distrutte è difficile ripararle, perché non possiamo farlo con macchine, lavoro e materiali”.

Già da settembre avevamo cominciato a dare concretezza a questo progetto (che può essere letto cliccando qui), organizzando incontri e individuando percorsi che avrebbero dovuto coinvolgere proprio i territori poi coinvolti nei violentissimi terremoti del 26 e 30 ottobre.

Gli eventi drammatici hanno momentaneamente interrotto, ma non spezzato, il nostro progetto, e – dopo questa fase di emergenza – faremo di tutto per riprendere il nostro discorso per entrare nella “bellezza lenta” di quelle zone, nella loro storia passata e in quella da ricostruire.

(Per inciso: cliccateci su quel link al discorso di Murakami, perché è proprio bello)

Oppure qui si può ascoltare Maila Pentucci che parla di territori, memoria, paesaggio nella puntata di ieri di Fahrenheit, trasmissione che in questi giorni sta meritoriamente dedicando gran parte delle energie ai paesi del terremoto.

Però in tutto questo chi, come me, si occupa di mestiere di parole, cultura, immaginario, è ancora molto tentato dal silenzio, di fronte alle urgenti e concretissime necessità quotidiane di chi ha perso tutto. Pensare alla quotidianità di queste persone stringe il cuore, e forse le uniche parole che contano, ora, solo le loro.

Oggi, per esempio, mia zia mi raccontava di aver incontrato qualche giorno fa una anziana signora a Porto Potenza, che ha cominciato a parlarle, raccontandole di essere una terremotata, ospitata in un albergo vicino al mare. Mi diceva mia zia che la signora era spaesata, perché nel suo paesino non c’erano mica tutte quelle macchine, e quelle strade così grandi. E che non sapeva dove andarsi a comprare delle mutande, ma poi aveva trovato un negozietto dei cinesi. E le aveva detto anche che aveva un gran bisogno di qualcuno con cui parlare. Mia zia, allora, le ha dato il suo numero di cellulare. Ma la signora non l’ha chiamata. Poi, però, mia zia l’ha incontrata di nuovo qualche giorno dopo, per strada, e le ha detto: “Come mai non mi ha più chiamato, signora?”. “Eh, il fatto è che io il cellulare lo uso solo per rispondere, non sono tanto abituata a chiamare col cellulare”. Ecco: mi viene da pensare che molte persone avranno bisogno di essere ascoltate, nei prossimi mesi, ma quelle che ne avranno bisogno più degli altri forse nemmeno ci cercheranno, e starà a noi trovarle, e ascoltarle. Anche questo sarà un modo per ricostruire, per ricominciare.

(la foto è di Paolo Coppari)

The times they are a-changin’

teatroHo lavorato per due anni all’Istituto Storico di Macerata, un’esperienza professionale straordinaria. Chi mi conosce e/o mi segue qui si sarà accorto certamente della prima cosa, forse della seconda.

Da qualche settimana sono tornato ad insegnare a scuola. Era previsto che quella in Istituto fosse un’esperienza a tempo, e a me piace tantissimo insegnare, dunque tutto bene, no? Eh no, proprio no. Perché meno bene, anzi decisamente male, va il modo in cui questa cosa è successa, e le conseguenze della stessa. La vera notizia, infatti, non è che io non lavoro più alla realizzazione dei progetti didattici dell’Istituto Storico di Macerata, quanto piuttosto che, purtroppo, non ci sarà nessuno a farlo al posto mio. Almeno per questo anno scolastico. E senza rosee prospettive per il futuro, va detto. Continua a leggere

Storia & storie

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Storia & storie nelle Marche è una rivista annuale arrivata al suo terzo numero, uscito qualche mese fa, che raccoglie fra tante cose interessanti (qui l’indice) una mia piccola nota su una bella mostra fotografica che c’è stata lo scorso anno a Macerata, dove parlo di un antenato del dottor Stranamore, dei rischi e delle opportunità delle celebrazioni storiche, e all’importanza di “ricordare ancora una volta quanto la normalità e le grandi torsioni della storia possano essere fra loro inaspettatamente vicine”.

Qui il testo della mia nota

Istantanee

Sono le foto (grazie, Giovanni Di Girolamo, per averle scattate) delle prove dello spettacolo Gerusalemme liberata. Frammenti da una storia di guerra e d’amore, che andrà in scena nel cortile di Palazzo Buonaccorsi sabato prossimo, 14 maggio, a partire dalle 20.30.

Altre info qui e qui

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Internate

“Ieri sera alle ore 20 circa, la nominata in oggetto approfittando dell’assenza delle altre internate coabitanti con essa nella stessa camera, ingerì, a scopo suicida, una forte dose di “Veramon”. Alle ore 20.45 circa, l’internata […] trovò la [..] stesa sul letto senza parola e vide subito una lettera messa bene in vista sul panchetto che trovasi in mezzo alla camera e che funge da tavolo. Presala e visto che era indirizzata a lei, la lesse. Nella lettera […] le chiedeva perdono dell’atto insano compiuto, dicendo che non aveva più il coraggio di continuare una vita senza alcuna notizia dei propri cari e dei propri beni e senza danaro…”

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Un’isola

Poco fa ero in una classe seconda di un liceo di Macerata: finiva un laboratorio intitolato “Dire la guerra”, e l’ultima tappa prevedeva un momento di scrittura creativa: dopo aver letto tanto, poesia e prosa, sulla guerra, chi voleva poteva provare a scrivere una poesia. Siamo partiti dalla frase di Izet Sarajlić resa famosa da Erri De Luca: “Chi ha fatto il turno di notte per impedire l’arresto del cuore del mondo? Noi, i poeti”. Questa era la scommessa: per una volta fare il turno di notte.

Ma quel che volevo dire in realtà era un’altra cosa, cioè quello che ho visto mentre le ragazze e i ragazzi scrivevano (tutti hanno scritto, moltissimi hanno letto agli altri): venticinque giovani donne e uomini, seduti, concentrati sulla loro interiorità, con un foglio e una penna, a scrivere una poesia. A me pare sempre una cosa incredibile. In senso letterale, stupenda. E’ un po’ lo stesso stupore di quando vedevo, le prime volte, le classi concentrate per due ore a provare a tradurre un brano di latino, o a scrivere un tema: non mi capacitavo del fatto che non scappassero via, che non protestassero, che non buttassero vocabolari e fogli dalla finestra. Eppure stavano lì, e quel loro stare lì (coi loro cervelli in azione, che quasi vedevi le sinapsi) a me pareva bello.

C’è sempre un elemento di costrizione, certo, la scuola è e resta un dispositivo. Però è anche un luogo in cui puoi trovare le condizioni per la concentrazione e la creatività, e non ci sono molte altre opportunità in giro.

Tutto considerato insomma, che esista un’isola in cui venticinque ragazze e ragazzi possono mettersi davanti ad un foglio, e davanti a sé stessi, e scrivere una poesia o un tema, una traduzione o una dimostrazione, per me è ancora una buona notizia. Qualcosa che va preservato.