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Igor Mitoraj (1944-2014)
Oggi è morto Igor Mitoraj. Per me è soprattutto l’autore delle opere di inquietante bellezza – frammenti di enormi statue deflagrate – che vedevo da studente, nel 1995, in giro per Macerata. Mi ricordo in particolare questa, sopra la rotonda dei Giardini Diaz, con questi occhi ciechi e l’espressione assorta. Guardandola, e leggendo il nome dell’autore che suonava slavo, pensavo alle bombe che ancora cadevano di là dell’Adriatico e insieme al mito, alla bellezza classica di cui mi nutrivo a lezione. E cercavo una difficile sintesi, che infatti non veniva.
In realtà, non sono tante le immagini di quegli anni che porto impresse nella memoria, ma questa sì, posso metterla agli atti.
(L’unica cosa strana è che nel mio ricordo questa scultura era bianca!)
Amori e morte di Nicola Ciraulo
(attenzione, qui sotto vi racconto praticamente tutta la trama di E’ stato il figlio)
In un Meridione d’Italia grottesco e metafisico vive la famiglia Ciraulo, che si barcamena raccattando rottami in un cimitero di navi reclinate e arrugginite. Intorno i simboli di una miserevole decadenza: lo Zen di Palermo e le ciminiere di Taranto sembrano ritrovarsi insieme in una foresta di simboli. Sulla piazza del quartiere, dominata dalla Morte Nera e dove l’Innocenza Bambina viene emarginata, esclusa, una mafia sbadata uccide la figlia più amata di Nicola, a cui rimane solo l’altro figlio, Tancredi: inconcludente, sognatore; in fondo inutile. Per la morte della piccola lo Stato riconosce un indennizzo alla famiglia, ma è una snervante trafila di orrendi avvocati e burocrazia viscida e sfuggente: quando arrivano i duecento milioni molti se ne sono già andati in debiti e usura. Il resto, Nicola lo spende, inopinatamente, per la macchina, per la Mercedes, per far vedere a tutti che non è più un poveraccio, e per dare al suo amore un nuovo e più rassicurante oggetto. Ma Tancredi, in una triste notte brava col cugino mafioso di quartiere, fa un graffio alla Mercedes. Da quel graffio la storia prende velocità: il padre si scaglia con violenza animale sul figlio, la madre chiama in aiuto il cugino mafioso che spara allo zio: Nicola muore nell’incredulità sua e di tutti. Interviene la nonna, figura finora marginale, che decide il da farsi: la colpa non ricadrà sull’uccisore, l’unico che con le sue attività criminali può garantire la sopravvivenza di tutti, ma sull’inetto Tancredi, che si farà il carcere al posto del cugino, e tornerà poi, dopo anni, nella casa vuota che fu della sua famiglia, pieno di ricordi e di storie che solo i sordomuti stanno ad ascoltare. Sulla piazza è rimasta solo una chiazza rossa di sangue, contemplata dall’Innocenza Bambina, muta ed impotente.
Al centro di tutto quella Macchina, la ricchezza ostentata delle anime straccione e miserabili. La scena di quella sera con i mucchi di banconote sul tavolo e ogni membro della famiglia a proiettarvi i suoi sogni di consumatore acerbo e sbandato.
Io, lo confesso, conosco fin troppo bene questa fame di riscatto del povero, del mentecatto che arriva a potersi permettere un simbolo di lusso, magari in mezzo al niente del resto della sua vita, e su quel lusso proietta un riscatto sociale in realtà effimero e, in definitiva, avvilente. E’ quel fenomeno che ha corrotto la civiltà contadina da cui provengo, e che la spirale consumistica degli anni Sessanta-Ottanta (e oltre) ha finito di distruggere, a poco a poco (cfr. Pasolini). Vengo da una famiglia che andava al mare con la Cinquecento e l’ombrellone arrugginito, negli anni Ottanta, e quando lo Stato ha indennizzato le nostre vite perdute con un po’ di soldi a debito (per fortuna non ci sono voluti dei morti, ma forse anche quella bambina morta del film va letta come un simbolo) abbiamo proiettato emozioni, sogni e fantasie sulle cose, perdendo un sacco di tempo e di energie che potevamo meglio usare per curare gli affetti e le persone. Questa sbornia poi, almeno per me, in larga parte è passata, ma restano le macerie, e il tarlo di aver regalato al Dio delle Cose una parte troppo grande di noi.
Un ricordo
Quando avevo più o meno quattordici anni mi misi in testa di imparare a suonare la chitarra (poi non ci sono riuscito), così comprai una chitarra, un libriccino con gli schemi degli accordi, e un quadernone. Sul quadernone scrissi i testi di alcune canzoni di cui avevo trovato gli accordi non so bene come. Erano quattro o cinque in tutto, credo. Mi ricordo Generale, Margherita, Questo piccolo grande amore e poi una canzone che canticchiava qualcuno in famiglia, una canzone in forma di lettera. Scrivere a mano una canzone è già un buon modo per fermarsi a pensare al testo; provare a cantarla mettendoci sotto un giro di accordi che ancora le dita non si decidono a padroneggiare è perfetto per fermarsi su ogni parola. Fu così che pensai a quanto era geniale quella battuta su miracoli più o meno straordinari riguardanti muti e sordi, ma soprattutto che mi affezionai a quel finale in cui c’era un dolce e malinconico senso della perdita, del tempo che rapisce tutto: un sentimento del tempo che poi avrei ritrovato in mille poeti, ma che forse allora per la prima volta colpì la mia immaginazione, e mi strinse il cuore. “L’anno che sta arrivando fra un anno passerà. Io mi sto preparando: è questa la novità”.
Con quelle canzoni scritte a mano sul quadernone non facevo grandi passi avanti, però non volevo mollare. Decisi di potenziare l’armamentario didattico: dal quadernone passai alle fotocopie di uno di quei libretti con le canzoni e gli accordi che usavano gli Scout. Il mio non era degli Scout ma di una associazione di operai cristiani: cambia poco. Fra le canzoni con gli accordi facili che provavo ce n’era una che diceva: “A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io. Avrei bisogno di pregare Dio, ma la mia vita non la cambierò mai mai. A modo mio quel che sono l’ho voluto io: lenzuola bianche per coprirci non ne ho sotto le stelle in Piazza Grande, e se la vita non ha sogni io li ho, e te li do. E se non ci sarà più gente come me voglio morire in Piazza Grande, tra i gatti che non han padrone come me attorno a me.”
Avevo più o meno quattordici anni, e mi sembrava un bellissimo programma di vita e di libertà.
Che tempo fa(ceva)
Su Youtube c’è questo video in cui si vede il generale Andrea Baroni che, 27 anni fa, metteva sull’avviso l’Italia per l’arrivo di una perturbazione che poi avrebbe portato una nevicata storica quanto quella di questi giorni. A me è capitato sotto gli occhi qualche tempo fa grazie a una segnalazione di P., esploratore dell’Adriatico e poeta meteorologo. E si è aperto l’abisso.
Nel gennaio dell’1985, se non sbaglio i calcoli, Gab faceva la seconda media, era appassionato di storia e di scienze, da grande voleva fare lo zoologo e non si perdeva una puntata di Quark dopo pranzo né una di Che tempo fa prima di cena. Non è dato sapere se Gab avesse a quell’epoca una idea di cosa significasse “divulgazione scientifica”, ma di certo intuiva che c’era un legame fra quei programmi e le ore di scienze a scuola, e le sue prime letture di libri sulle meraviglie della natura; e più o meno coscientemente capiva che l’uomo delle previsioni del tempo non stava lì ogni sera solo per dirci che tempo avrebbe fatto l’indomani, ma ambiva a migliorare la cultura meteorologica degli spettatori. E lo faceva, l’uomo del tempo, in un modo non proprio così elementare: Gab, infatti, non capiva tutto, ma a quell’età non capire tutto, avere uno spazio di nebbia o di buio e la ragionevole speranza di poterlo rischiarare in futuro, è il fascino stesso dello studio e dell’esperienza, la molla principale verso la conoscenza. Probabilmente non capivano molto, di questi excursus, nemmeno i familiari di Gab, il babbo e la mamma, il nonno e la nonna (che probabilmente si concentravano semplicemente su domani-sole o domani-pioggia), di certo non capivano nulla o quasi i due fratellini piccoli. Eppure il generale Baroni, con umiltà e determinazione, faceva il suo lavoro di divulgatore, e parlava di frecce bariche e di Meteosat, di grandi canali depressionari, di Golfo di Biscaglia e – ovviamente – dell’anticilone delle Azzorre. Accompagnava le parole con i suoi modi seri e garbati, i gesti ampi delle braccia nell’indicare una freccia o nello spostare una calamita: tutti elementi che contribuivano a creare in Gab – lui non se ne accorgeva – un’idea, o un ideale.
Il generale Baroni aveva gli stessi baffi, lo stesso fisico minuto, soprattutto gli stessi gilet – beige, grigi, maròn – da fiera di paese, di Guglielmo, il nonno di Gab che tutti chiamavano Pare’. Gab tutte le sere guardava le previsioni del tempo formulate da questo alter ego dotto di suo nonno e senza saperlo interiorizzava quei modi di fare e di dire, ne faceva – piano piano – una vocazione. Un anno dopo, con una decisione in qualche modo storica in una famiglia dove nessuno era mai andato oltre la quinta elementare, Gab si sarebbe iscritto al liceo scientifico, probabilmente pensando di trovarci insegnanti con quei baffi, quei gilet, quel repertorio di parole affascinanti e un po’ oscure, quelle ampie aperture di braccia nello spiegare alla lavagna. E magari senza saperlo con chiarezza Gab percepiva anche che tutto questo avrebbe avuto in qualche modo a che fare con il suo destino.
Andrea Baroni avrebbe fornito le previsioni fino al 31 dicembre 1993, quando si congedò dal pubblico con le parole: “E’ tutto. Vi ringrazio. Vi dico la buonasera. Vi auguro il buon anno. E’ tutto.” Poi Che tempo fa ha continuato stancamente le trasmissioni, sempre più emarginato dal palinsesto di Rai1, e ho scoperto con stupore che è durato fino al giugno dello scorso anno, quando Guido Caroselli ha salutato malinconicamente il pubblico. Ma questo con il destino di Gab non aveva già più a che fare da tempo.