Oggi non riesco a preparare il mio consueto post a giorni alterni perché devo finire di preparare i miei testi per intervenire stasera a questa cosa qui (l’idea è quella di trasformare la presentazione di un disco in un viaggio nella storia e nella cultura del Novecento):
Se poi la cosa viene bene, domani metto i testi che ho preparato. Per chi l’ha visto e per chi non c’era.
Un giorno ho letto un’intervista ad Amedo Quondam, un vecchio italianista sornione, pubblicata in occasione del suo ritiro dai ruoli dell’Accademia. Mi aveva colpito che, riferendosi a questo paese in cui a lui e a me è capitato di nascere e vivere, usasse la perifrasi “un paese chiamato Italia”, come a volerci insinuare qualche dubbio, magari che ormai sia rimasto poco più che questa etichetta – il nome Italia – a tenere insieme l’ambaradàn. O magari voleva soltanto ricordarci che c’è voluto che qualcuno decidesse di “chiamarlo” (e raccontarlo, descriverlo, accusarlo, denigralo anche – ma in ogni modo “dirlo”), questo paese, perché esistesse – insomma, che le parole (le parole di questa lingua chiamata italiano) sono alla fin fine le nostre radici: mutevoli e contorte, fragili e volanti. Non so, insomma, di preciso cosa volesse dire Quondam, però quel vezzo linguistico è rimasto nella mia memoria, come un modo un po’ meno retorico del solito per riferirsi all’argomento retorico per antonomasia: l’identità e la patria. E alla fine è diventato, faut de mieux, il titolo di un ciclo di incontri che inizia lunedì, e a cui tutti siete invitati. Secondo me, come direbbe Claudio Gaetani, ce gusta.
Guardavo alla tv un programma sullo scandalo bancario, sotto scorrevano, come usa oggi, i commenti via twitter degli spettatori. Uno, crudele, mi ha ricordato questo post del maggio scorso.
Ecco, così va la vita. E intanto Hollande si è scoperto generale, il Pdl rimonta nei sondaggi, e ho anche il raffreddore.
Però, nonostante tutto, l’ultimo album di De Gregori non mi è sembrato malaccio, e sabato scorso mi ha fatto una bella compagnia mentre facevo i mestieri. Il seguente pezzo mi è piaciuto in particolare (la scenetta descritta nel ritornello, ancora più in particolare).
I commenti alla vittoria di Hollande, il sempre più chiaro massacro del Pdl, la fine della pioggia (con relativa corsetta in riva al fiume), e per concludere una gustosa tranquilla cenetta a casa: poteva anche essere una bella serata. Poi ho visto questo:
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(la neve deve aver fatto secchi molti ulivi, in quel di Spello…)
Aggiornamento: un’affezionata lettrice del blog ( 🙂 ) mi segnala questo reportage sul committente dello spot. Sono sempre più felice.
Aggiornamento 2: in una sua canzone De Gregori scrive: “tu da che parte stai? / stai dalla parte di chi ruba nei supermercati / o di chi li ha costruiti / rubando”. Essendo il nostro un grande ammiratore di Brecht, ho sempre pensato che nello scrivere quei versi avesse in mente il famoso apoftegma “Cos’è rapinare una banca a paragone del fondare una banca?”. Ma in fondo anche La storia tratta temi molto simili a Domande di un lettore operaio, che anni dopo sarà citata espressamente in Il cuoco di Salò.E il cerchio, in qualche modo, si chiude.
Quando avevo più o meno quattordici anni mi misi in testa di imparare a suonare la chitarra (poi non ci sono riuscito), così comprai una chitarra, un libriccino con gli schemi degli accordi, e un quadernone. Sul quadernone scrissi i testi di alcune canzoni di cui avevo trovato gli accordi non so bene come. Erano quattro o cinque in tutto, credo. Mi ricordo Generale, Margherita, Questo piccolo grande amore e poi una canzone che canticchiava qualcuno in famiglia, una canzone in forma di lettera. Scrivere a mano una canzone è già un buon modo per fermarsi a pensare al testo; provare a cantarla mettendoci sotto un giro di accordi che ancora le dita non si decidono a padroneggiare è perfetto per fermarsi su ogni parola. Fu così che pensai a quanto era geniale quella battuta su miracoli più o meno straordinari riguardanti muti e sordi, ma soprattutto che mi affezionai a quel finale in cui c’era un dolce e malinconico senso della perdita, del tempo che rapisce tutto: un sentimento del tempo che poi avrei ritrovato in mille poeti, ma che forse allora per la prima volta colpì la mia immaginazione, e mi strinse il cuore. “L’anno che sta arrivando fra un anno passerà. Io mi sto preparando: è questa la novità”.
Con quelle canzoni scritte a mano sul quadernone non facevo grandi passi avanti, però non volevo mollare. Decisi di potenziare l’armamentario didattico: dal quadernone passai alle fotocopie di uno di quei libretti con le canzoni e gli accordi che usavano gli Scout. Il mio non era degli Scout ma di una associazione di operai cristiani: cambia poco. Fra le canzoni con gli accordi facili che provavo ce n’era una che diceva: “A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io. Avrei bisogno di pregare Dio, ma la mia vita non la cambierò mai mai. A modo mio quel che sono l’ho voluto io: lenzuola bianche per coprirci non ne ho sotto le stelle in Piazza Grande, e se la vita non ha sogni io li ho, e te li do. E se non ci sarà più gente come me voglio morire in Piazza Grande, tra i gatti che non han padrone come me attorno a me.”
Avevo più o meno quattordici anni, e mi sembrava un bellissimo programma di vita e di libertà.
Una cosa era certa: non avrei cominciato a scrivere questo blog finché non gli avessi trovato un titolo che mi sembrasse adeguato. Fosse stato per le cose da dire, gli appunti da prendere, i pensieri da fissare, TQC poteva essere nato molto tempo fa. Non foss’altro perché per uno che passa un po’ di tempo sulla rete un blog è un buon modo di prendere appunti, per se stesso prima che per gli altri.
Però mi mancava il titolo: da tempo ci pensavo, e ogni tanto ho anche registrato su wordpress dei domini dai nomi banali o bizzari, che ora stanno lì, vuoti, probabilmente destinati a non essere mai usati. Molti di quei nomi erano omaggi più o meno espliciti ad autori che amo. Ad esempio avevo pensato di chiamare questo blog lesnuageslabas, in onore del primo dei piccoli poemi in prosa di Baudelaire, il cui protagonista professa un amore esclusivo per le nuvole che corrono all’orizzonte; ma magari ne sarebbe nato un blog vagamente poetico, certamente fumoso, lontano dalla concretezza dei giorni, delle cose che faccio e che vedo, così ci ho rinunciato. Ha avuto poi anche l’inevitabile tentazione leopardiana, e ho registrato sia operettemorali sia lericordanze sia, con una certa maggiore convinzione, leremitadegliappennini, l’appellativo con cui Leopardi veniva chiamato da un amico svizzero-fiorentino, e che certo dice qualcosa di me, di questi miei anni a Recanati.
Ma i titoli letterari sono sempre rischiosi, vincolanti, pretenziosi. Così sono passato a tutt’altro e nella mia testa per un po’ il futuro blog si è chiamato nonmeneintendo, un intercalare che usava come premessa ad ogni discorso un’amica, in una stagione lontana: in fondo qui parlerò come sempre di cose che conosco poco, avendo rinunciato da tempo ad essere specialista in qualcosa, e quel titolo poteva essere davvero il più adatto. Ma sarei passato per il falso modesto che poi pontifica su tutto, e così ho lasciato perdere anche questo titolo.
Ci sono state anche ipotesi diverse, come canepino, un omaggio (suggerito da Fabio) al luogo dove sono cresciuto; o gabgolan, il nome che mi ha dato una volta Marco e che uso spesso sulla rete; o altri ancora che non ricordo più.
Poi l’altro giorno, per caso, ho riascoltato una vecchia canzone di Francesco De Gregori, e ho sentito la sua voce fermarsi su queste tre parole banali e perfette prima che qualcuno dal pubblico urlasse – fuori tempo – l’ultima parola (“passare”) del verso; parola che poi De Gregori, burbero e indifferente, ha cantato quand’era giusto farlo, poche battute dopo.
Banale, perfetto, fuori tempo. In quel momento ho capito che questo blog poteva cominciare ad esistere.
Aggiornamento: …e invece mi dicono che i blog non sono poi così fuori tempo come pensavo…