Qualche sera fa ho assistito a questa scena: mentre su Recanati si rovesciava tutta la pioggia della stagione e poco più in là si aspettava cantando il 25 aprile, Riccardo Tesi, uno dei più grandi suonatori di organetto diatonico, seduto al tavolo di un bar, imbraccia l’organetto di un giovane musicista e si mette a suonare. Purtroppo non ho l’audio, questa è la foto di un momento da ricordare:
La sera prima, nella sede di ArsLive trasformata in una affascinante cave parigina del dopoguerra, Tesi aveva tenuto un concerto. Di seguito un paio di esempi della sua musica:
Ieri mattina mi sentivo pieno di sconforto, e mi sono ritrovato in pieno nelle parole di Christian Raimo (da qui):
Aboliamo la festa del 25 aprile. In questi giorni verrebbe da fare la modesta proposta di eliminare questo giorno di festa dal calendario o in alternativa di sostituirne la denominazione: chiamiamola festa di primavera o qualcosa del genere. Sanciamo una condizione di fatto, l’assoluta indifferenza della gran parte delle istituzioni, dei mezzi d’informazione, dell’opinione pubblica per la ricorrenza della liberazione dell’Italia dal fascismo.
Quell’indifferenza la vedevo tutta intorno a me, e un po’ anche dentro di me – per reazione. Poi però, contro tutto e tutti, soprattutto contro un cielo che ha rovesciato su Recanati tutta la pioggia della stagione, ci siamo ritrovati, con tante ragazze e tanti ragazzi, nel cortile di una vecchia scuola dove abbiamo festeggiato quei vecchi e giovanissimi ragazzi che oltre settant’anni fa hanno saputo scegliere. C’erano tanti musicisti che hanno cantato la passione, la rabbia e l’amore; c’erano i ragazzi del Centro che vendevano vecchi libri per autofinanziarsi, le sindacaliste che raccoglievano firme per i referendum, l’immagine di Nunzia sul muro della scuola che ci raccontava di quando faceva la staffetta, le ragazze della libreria-caffé Passepartout, la più bella e nuova realtà culturale di Recanati, c’erano i tanti ragazzi dell’ARCI con i panini il vino l’entusiasmo, c’erano Giacomo a vendere libri e fare tessere dell’ANPI, Ruggero a parlarci con passione e competenza di Costituzione, Piergiorgio che dava voce a Calamandrei, Maria Vittoria che commossa e commovente leggeva le parole di Leone a Natalia; queste, ad esempio, che lui scrive a lei poche ore prima di morire:
Immagina che io sia un prigioniero di guerra; ce ne sono tanti, soprattutto in questa guerra; e nella stragrande maggioranza torneranno. Auguriamoci di essere nel maggior numero, non è vero, Natalia? Ti bacio ancora e ancora e ancora. Sii coraggiosa. Leone
E in mezzo a tutto questo c’ero io, che osservavo tutto questo e grazie a questo, grazie a tutti loro, mi scuotevo di dosso la polvere dello sconforto e del disincanto.
E adesso si va al corteo (sempre sotto la pioggia) – e poi a metter su Internate.
Buon 25 aprile, festa della Liberazione, a tutte e tutti.
In vita mia non ero mai stato, credo, ad un concerto di musica colta contemporanea. L’ho fatto, credo per la prima volta, questa settimana, perché a Macerata c’era una importante rassegna e un amico mi ha invitato, allora lunedì siamo andati: suonava un quartetto d’archi che pare sia uno dei migliori al mondo nel suo genere, l’Arditti Quartet (un inglese, un tedesco, un brasiliano e un barbutissimo armeno). Erano previste musiche di Ligeti, Scodanibbio e Donatoni: tutto arabo, per me. Confesso che temevo soprattutto la durata (che poi si è rivelata accettabile).
L’esperienza, invece, è stata inaspettatamente piacevole, e istruttiva. Alcuni spunti sparsi. In primo luogo, la partecipazione dal vivo è fondamentale: dico partecipazione perché ci si sente protagonisti, in qualche modo, coinvolti nell’attesa e nella fatica della produzione di quei suoni strani (il primo pezzo, ad esempio, cominciava come un canto di uccellini un po’ spaesati), spesso inaspettati e dissonanti. C’è poi, per certi versi, la sensazione che non sia così incomprensibile, questa musica, anzi: quasi mi è parsa più fruibile di quella classica-classica, per uno che di musica non ci capisce un acca come me. Ma la cosa in assoluto più bella è osservare la pratica dell’esecuzione: intuisci quanto possa essere difficile tirare fuori questi suoni da quegli strumenti, e quanta concentrazione, quanta disciplina, quanta capacità di ascolto degli altri ci possa volere per farlo, e farlo perfettamente come dev’essere.
A differenza del jazz, dove quel che conta è l’improvvisazione, qui è tutto minuziosamente scritto in quelle gigantesche partiture che i quattro tenevano davanti e giravano in fretta al momento giusto, e anche quando tutto sembra un affastellarsi casuale di suoni e rumori invece ogni effetto – mi son detto – deve star lì, annotato da qualche parte, e certamente richiede una precisa precisissima tecnica esecutiva, frutto di anni di fatica e di disciplina. E’ come se l’autore prima e gli interpreti poi lavorassero di cesello contro il caos del mondo: quell’apparente confusione è costruita, pensata, controllata dall’uomo.
Questo insomma più o meno pensavo: qui ogni nota è al suo posto, ogni strumento fa il suo dovere di concerto con gli altri: l’uomo ha scritto e l’uomo interpreta: per questi minuti che dura l’esecuzione, nel silenzio teso del teatro, è l’uomo con la sua arte ad essere padrone del campo, facendo il verso all’entropia che c’è fuori e della quale ritorneremo tutti vittime fra poco.
Un bel pensiero da portarsi a casa, la prima volta che vai ad un concerto di musica contemporanea.
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Questo è il pezzo di Ligeti interpretato lunedì scorso dal quartetto Arditti a Macerata:
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Casualmente, sempre in questi giorni, ma in tutt’altro contesto, ho scoperto quest’altra opera di Ligeti, per violoncello solo, che m’è parsa di una bellezza stupefacente e allora la metto qui come bonus track:
Oggi non riesco a preparare il mio consueto post a giorni alterni perché devo finire di preparare i miei testi per intervenire stasera a questa cosa qui (l’idea è quella di trasformare la presentazione di un disco in un viaggio nella storia e nella cultura del Novecento):
Se poi la cosa viene bene, domani metto i testi che ho preparato. Per chi l’ha visto e per chi non c’era.
Una cosa era certa: non avrei cominciato a scrivere questo blog finché non gli avessi trovato un titolo che mi sembrasse adeguato. Fosse stato per le cose da dire, gli appunti da prendere, i pensieri da fissare, TQC poteva essere nato molto tempo fa. Non foss’altro perché per uno che passa un po’ di tempo sulla rete un blog è un buon modo di prendere appunti, per se stesso prima che per gli altri.
Però mi mancava il titolo: da tempo ci pensavo, e ogni tanto ho anche registrato su wordpress dei domini dai nomi banali o bizzari, che ora stanno lì, vuoti, probabilmente destinati a non essere mai usati. Molti di quei nomi erano omaggi più o meno espliciti ad autori che amo. Ad esempio avevo pensato di chiamare questo blog lesnuageslabas, in onore del primo dei piccoli poemi in prosa di Baudelaire, il cui protagonista professa un amore esclusivo per le nuvole che corrono all’orizzonte; ma magari ne sarebbe nato un blog vagamente poetico, certamente fumoso, lontano dalla concretezza dei giorni, delle cose che faccio e che vedo, così ci ho rinunciato. Ha avuto poi anche l’inevitabile tentazione leopardiana, e ho registrato sia operettemorali sia lericordanze sia, con una certa maggiore convinzione, leremitadegliappennini, l’appellativo con cui Leopardi veniva chiamato da un amico svizzero-fiorentino, e che certo dice qualcosa di me, di questi miei anni a Recanati.
Ma i titoli letterari sono sempre rischiosi, vincolanti, pretenziosi. Così sono passato a tutt’altro e nella mia testa per un po’ il futuro blog si è chiamato nonmeneintendo, un intercalare che usava come premessa ad ogni discorso un’amica, in una stagione lontana: in fondo qui parlerò come sempre di cose che conosco poco, avendo rinunciato da tempo ad essere specialista in qualcosa, e quel titolo poteva essere davvero il più adatto. Ma sarei passato per il falso modesto che poi pontifica su tutto, e così ho lasciato perdere anche questo titolo.
Ci sono state anche ipotesi diverse, come canepino, un omaggio (suggerito da Fabio) al luogo dove sono cresciuto; o gabgolan, il nome che mi ha dato una volta Marco e che uso spesso sulla rete; o altri ancora che non ricordo più.
Poi l’altro giorno, per caso, ho riascoltato una vecchia canzone di Francesco De Gregori, e ho sentito la sua voce fermarsi su queste tre parole banali e perfette prima che qualcuno dal pubblico urlasse – fuori tempo – l’ultima parola (“passare”) del verso; parola che poi De Gregori, burbero e indifferente, ha cantato quand’era giusto farlo, poche battute dopo.
Banale, perfetto, fuori tempo. In quel momento ho capito che questo blog poteva cominciare ad esistere.
Aggiornamento: …e invece mi dicono che i blog non sono poi così fuori tempo come pensavo…