In vita mia non ero mai stato, credo, ad un concerto di musica colta contemporanea. L’ho fatto, credo per la prima volta, questa settimana, perché a Macerata c’era una importante rassegna e un amico mi ha invitato, allora lunedì siamo andati: suonava un quartetto d’archi che pare sia uno dei migliori al mondo nel suo genere, l’Arditti Quartet (un inglese, un tedesco, un brasiliano e un barbutissimo armeno). Erano previste musiche di Ligeti, Scodanibbio e Donatoni: tutto arabo, per me. Confesso che temevo soprattutto la durata (che poi si è rivelata accettabile).
L’esperienza, invece, è stata inaspettatamente piacevole, e istruttiva. Alcuni spunti sparsi. In primo luogo, la partecipazione dal vivo è fondamentale: dico partecipazione perché ci si sente protagonisti, in qualche modo, coinvolti nell’attesa e nella fatica della produzione di quei suoni strani (il primo pezzo, ad esempio, cominciava come un canto di uccellini un po’ spaesati), spesso inaspettati e dissonanti. C’è poi, per certi versi, la sensazione che non sia così incomprensibile, questa musica, anzi: quasi mi è parsa più fruibile di quella classica-classica, per uno che di musica non ci capisce un acca come me. Ma la cosa in assoluto più bella è osservare la pratica dell’esecuzione: intuisci quanto possa essere difficile tirare fuori questi suoni da quegli strumenti, e quanta concentrazione, quanta disciplina, quanta capacità di ascolto degli altri ci possa volere per farlo, e farlo perfettamente come dev’essere.
A differenza del jazz, dove quel che conta è l’improvvisazione, qui è tutto minuziosamente scritto in quelle gigantesche partiture che i quattro tenevano davanti e giravano in fretta al momento giusto, e anche quando tutto sembra un affastellarsi casuale di suoni e rumori invece ogni effetto – mi son detto – deve star lì, annotato da qualche parte, e certamente richiede una precisa precisissima tecnica esecutiva, frutto di anni di fatica e di disciplina. E’ come se l’autore prima e gli interpreti poi lavorassero di cesello contro il caos del mondo: quell’apparente confusione è costruita, pensata, controllata dall’uomo.
Questo insomma più o meno pensavo: qui ogni nota è al suo posto, ogni strumento fa il suo dovere di concerto con gli altri: l’uomo ha scritto e l’uomo interpreta: per questi minuti che dura l’esecuzione, nel silenzio teso del teatro, è l’uomo con la sua arte ad essere padrone del campo, facendo il verso all’entropia che c’è fuori e della quale ritorneremo tutti vittime fra poco.
Un bel pensiero da portarsi a casa, la prima volta che vai ad un concerto di musica contemporanea.
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Questo è il pezzo di Ligeti interpretato lunedì scorso dal quartetto Arditti a Macerata:
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Casualmente, sempre in questi giorni, ma in tutt’altro contesto, ho scoperto quest’altra opera di Ligeti, per violoncello solo, che m’è parsa di una bellezza stupefacente e allora la metto qui come bonus track:
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