Ho letto La vita in tempo di pace di Francesco Pecoraro, e l’ho fatto – come mi capita per quasi tutti i libri che leggo – fuori sincrono, quando ormai non ne parla più nessuno o quasi. Forse dovrei creare una apposita rubrica del blog intitolata dopo de àmmene, non so.
La vita in tempo di pace, dunque: l’ingegner Ivo Brandani, quasi settant’anni, si sta per imbarcare da Sharm verso Roma, verso casa, dove non arriverà: si sentirà male durante il volo, a causa di una infezione rara e fatale, un’ameba che ti mangia il cervello, contratta in Africa. Il romanzo è la registrazione del flusso di coscienza del protagonista nell’attesa del volo e durante lo stesso, alternata al racconto a ritroso di sette momenti chiave della vita di Brandani. I capitoli dedicati al giorno fatale, se letti di seguito, sarebbero già da soli un romanzo, dallo stile solido e compatto. I capitoli retrospettivi, invece, potrebbero essere ciascuno il racconto esemplare di un autore diverso. Non è difficile vedere in controluce il modello di Se una notte d’inverno un viaggiatore.
Dentro questo schema, il flusso di pensieri, i casi della vita di un uomo nato appena finita la guerra, testimone-protagonista del progressivo esaurirsi della spinta storica della ricostruzione, destinato a vivere solo delle sue idiosincrasie e dei mille inutili conflitti quotidiani senza prospettiva propri di un’epoca che ha abolito i grandi conflitti epocali, del tempo di pace (“adesso la vicinanza, la solidarietà provata un tempo per i compagni del movimento, era scomparsa. Al suo posto c’era il tutti-contro-tutti della vita in Tempo di Pace”, p. 375).
Il romanzo di uno Sconfitto-Per-Assenza-Di-Guerre, insomma: uno che avrebbe voluto combattere e costruire ponti, e che invece ha girato a vuoto ed è finito a progettare barriere coralline farlocche ricostruire in fabbriche orientali.
Un romanzo pieno di intuizioni, portatore di una visione del mondo sofferta e coerente, e scritto con innegabile – a volte impressionante – talento. E con un protagonista indimenticabile. Però un romanzo forse troppo lungo, anche ripetitivo, forse perché probabilmente voleva proprio trasmettere il senso di noia e inutilità della vita in tempo di pace. Va bene, però arrivi verso la fine del libro pensando che – se un classico è un libro che non ha mai finito di dire quello che ha da dire – questo forse un classico non è, perché pare che abbia finito di dirti quello che aveva da dire anche prima che tu abbia finito di leggerlo.
Poi però, per contrappasso, proprio alla fine di questo libro fluviale, ti arriva un epilogo brevissimo (tre pagine) e folgorante. E ti devi per forza ricredere.