Gli esami non finiscono

Nella scuola italiana succede che, se ti metti a disposizione per fare da tutor ad un tirocinante, per spirito di servizio e curiosità didattica, mettendo in conto lavoro in più senza guadagnarci praticamente nulla se non la speranza di una bella esperienza umana e professionale, be’, ti fanno un esame. Non un esame psichiatrico, che sarebbe anche sensato (uno per prendersi rogne a gratis o quasi deve avere qualche rotella fuori posto), ma proprio un esame: un colloquio strutturato con dirigente scolastico e colleghi esperti.

Oggi mi sono trovato in questa strana situazione, di fronte a colleghi che sono anche amici, con cui vado a vedere film insieme o con cui parlo di politica, di letteratura e di vita. La situazione è stata un po’ buffa, con loro schierati proprio come in un esame di maturità (magari qualche rigidità prossemica si poteva evitare, in effetti), la luce della finestra in faccia come in un interrogatorio, e quella memoria emotiva che ti fa sentire sotto esame di fronte ad una commissione schierata, anche se non ti stai – di fatto – giocando niente.

Però i colleghi sono stati carinissimi, professionali, la cara Enrica prendeva anche appunti sulle mie considerazioni (un po’ improvvisate, a dire il vero), e mi ha fatto sentire anche un po’ importante. E alla fine è stato anche un bel momento, c’era l’aspetto del sentirsi interrogati e giudicati, sì, ma anche quello del sentire un po’ di attenzione sul tuo lavoro.

In fondo, mi sono detto, forse anche il fatto di accettare di essere giudicati, valutati per il proprio lavoro, se si fanno le cose con coscienza da entrambe le parti, non è una cosa così temibile. Magari è solo una questione di abitudine. Chissà…

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