Doveva essere qualcosa come il maggio del 1997. Avevo 25 anni e mi stavo per laureare, con discreto ritardo, in lettere, mi ero messo a studiare un oscuro personaggio del nostro Rinascimento, Giulio Camillo, e cominciavo a capire grazie al mio maestro di allora, Carlo Vecce, che dentro la parola “filologia” c’era qualcosa che mi interessava, una possibile chiave di lettura delle cose. Vecce mi disse che di lì a qualche giorno a Chieti ci sarebbe stata la lezione conclusiva di un seminario di critica testuale, la teneva uno che era forse il massimo esperto proprio di quel Giulio Camillo lì: “perché non vieni?”.
Siamo andati, io e Fabio, il mio sodale di quella stagione. Scoprimmo che la lezione conclusiva del seminario era anche l’ultima a Chieti di quel professore, che dal novembre successivo avrebbe insegnato a Roma. Quindi era già di suo un’occasione solenne, anche se questo contrastava con la semplicità della situazione assolutamente informale e quasi dimessa: il tavolo ovale della Presidenza di Facoltà, una decina di posti: 7-8 studenti del seminario, Vecce, forse qualche altro professore, due intrusi: io e Fabio. Una scadente bottiglia di spumante da stappare alla fine.
Arrivò questo signore alto, signorile, sorridente; abbracciava una pila di libri e riviste, sparse tutto sul tavolo, e poi cominciò. In un’ora, un’ora e mezza, fece una storia della moderna cultura occidentale sub specie philologiae: Auerbach, Curtius, De Robertis, Contini e chissà più chi altro sembrarono diventare in quelle due ore delle guide, dei Virgili, nel mondo per noi ancora ombroso della critica. Io e Fabio ce ne tornammo a casa abbastanza esaltati, molti titoli e autori da procurarsi e leggere prima possibile, e – lo capimmo piano piano – un po’ cambiati nel nostro rapporto con tradizione letteraria.
Sono passati quasi vent’anni. Molte cose sono cambiate, cambiati i miei maestri e i miei interessi, i miei orizzonti culturali e un po’ anche il mio lavoro. E oggi mi è capitato di incontrare di nuovo quel professore: è venuto nella nostra scuola, ha fatto una lezione di un’ora e mezza a trecento studenti e una di dieci minuti (ma intensissimi) ai 19 di quarta effe. E ho ritrovato lo stesso mix di generosità e intelligenza di quel lontano pomeriggio teatino. Non credo di essere stato l’unico.