Sei frammenti non narrativi di Calvino che vale la pena di leggere a scuola

Il 18 febbraio 2022 mi è capitata l’occasione di dialogare con Massimiliano Tortora sull’autore che forse con più costanza mi ha accompagnato da quando ho cominciato a leggere libri (a questo link c’è la registrazione dell’incontro). Una delle questioni che mi piacerebbe discutere è quella che riguarda il rapporto fra il Calvino narratore e il Calvino saggista-intellettuale. I suoi scritti non narrativi, infatti, mi sono sempre piaciuti quanto quelli narrativi, e sono convinto che, con juicio, sia giusto leggerne dei frammenti a scuola. Ne ho selezionati (in gran parte attingendo a lavori dello stesso Tortora e di Roberto Contu, lo confesso) sei, come sei erano le lezioni che Calvino doveva tenere a Harvard e che poi diventarono, per i casi della vita e della morte, il suo testamento intellettuale, nonché uno dei suoi libri più belli.

  1. LA LETTERA CON CUI CALVINO ESCE DAL PCI

Nel 1957 Calvino, che fin dalla Resistenza aveva militato nel Partito Comunista Italiano, dopo una serie di polemiche e di dissapori, decide di lasciare il partito. Le sue motivazioni ci danno allo stesso tempo un primo autoritratto intellettuale e politico di Calvino e aiutano a farsi un’idea (soprattutto se si legge la lettera insieme alla risposta del partito a Calvino, disponibile nel link) su cosa fossero partiti e politica nella vita delle persone negli anni Cinquanta. Un altro mondo rispetto a quello in cui sono cresciuti gli studenti di oggi.

Sono consapevole di quanto il Partito ha contato nella mia vita; vi sono entrato a vent’anni, nel cuore della lotta armata di liberazione; ho vissuto come comunista gran parte della mia formazione culturale e letteraria; sono diventato scrittore sulle colonne della stampa di Partito; ho avuto modo di conoscere la vita di Partito a tutti i livelli, dalla base al vertice, sia pure con una partecipazione discontinua e talora con riserve e polemiche, ma sempre traendone preziose esperienze morali e umane; ho vissuto sempre (e non solo dal XX Congresso) la pena di chi soffre gli errori del proprio tempo, ma avendo costantemente fiducia nella storia; non ho mai creduto (neanche nel primo zelo del neofita) che la letteratura fosse quella triste cosa che molti nel Partito predicavano, e proprio la povertà della letteratura ufficiale del comunismo mi è stata di sprone a cercare di dare al mio lavoro di scrittore il segno della felicità creativa: credo di essere sempre riuscito ad essere, dentro il Partito, un uomo libero.

Lettera di dimissioni di Calvino dal Partito Comunista Italiano, 1957 (cfr. link).

2. DUE SCRITTORI IN CRISI

In un saggio del 1961 Calvino riferisce, a modo suo, le discussioni con un altro scrittore molto diverso da lui, Carlo Cassola (“sempre, per lettera e a voce, siamo sempre di parere contrario”). Il tema è il senso del romanzo e della letteratura nel mondo moderno, e se si debba cercare di recuperare la grande tradizione del passato o lanciarsi alla ricerca di forme adatte a dire le nuove condizioni dell’esistenza umana in un mondo radicalmente trasformato.

Insomma, se gran parte dei temi che parevano precipui del romanzo ora son fatti propri da altri strumenti di conoscenza, nessuno di questi strumenti dà quello che la letteratura dava: però il romanzo è una pianta che non cresce sul terreno già battuto; deve trovare una terra vergine per piantare le sue radici. Il romanzo non può più pretendere d’informarci su come è fatto il mondo, deve e può scoprire il modo, i mille, i centomila nuovi modi in cui si configura il nostro inserimento nel mondo, esprimere via via le nuove situazioni esistenziali. Qui soltanto forse possiamo riconoscere che la poesia non avrà mai fine, e così quel caso particolare della poesia che chiamiamo romanzo: la poesia come primo atto naturale di chi prenda coscienza di se stesso, di chi si guarda attorno con lo stupore d’essere al mondo.

Italo Calvino, Dialogo di due scrittori in crisi (1961), da Italo Calvino, Una pietra sopra, Torino, Einaudi, 1980.

3. LA SFIDA AL LABIRINTO

In questo saggio del 1962 Calvino si confronta con un’immagine centrale per la sua riflessione e dalla grande forza conoscitiva, quella del labirinto. Cosa può fare, il letterato, l’intellettuale, di fronte ad un mondo complesso e labirintico: arrendersi alla complessità? cercare mappe sempre più dettagliate? Semplificare il più possibile? Compito della letteratura, secondo Calvino, è cercare l’atteggiamento giusto con cui sfidare il labirinto, anche se si sa che questa è una fatica di Sisifo.

Questa letteratura del labirinto […] ha in sé una doppia possibilità. Da una parte c’è l’attitudine oggi necessaria per affrontare la complessità del reale, rifiutandosi alle visioni semplicistiche che non fanno che confermare le nostre abitudini di rappresentazione del mondo; quello che oggi ci serve è la mappa del labirinto la più particolareggiata possibile. Dall’altra parte c’è il fascino del labirinto in quanto tale, del perdersi nel labirinto, del rappresentare questa assenza di vie d’uscita come la vera condizione dell’uomo. Nello sceverare l’uno dall’altro i due atteggiamenti vogliamo porre la nostra attenzione critica, pur tenendo presente che non si possono sempre distinguere con un taglio netto (nella spinta a cercare la via d’uscita c’è sempre anche una parte d’amore per i labirinti in sé; e del gioco di perdersi nei labirinti fa parte anche un certo accanimento a trovare la via d’uscita). Resta fuori chi crede di poter vincere i labirinti sfuggendo alla loro difficoltà; ed è dunque una richiesta poco pertinente quella che si fa alla letteratura, dato un labirinto, di fornirne essa stessa la chiave per uscirne. Quel che la letteratura può fare è definire l’atteggiamento migliore per trovare la via d’uscita, anche se questa via d’uscita non sarà altro che il passaggio da un labirinto all’altro. È la sfida al labirinto che vogliamo salvare, è una letteratura della sfida al labirinto che vogliamo enucleare e distinguere dalla letteratura della resa al labirinto.

La sfida al labirinto (1961), in Una pietra sopra, cit.

4. LA PREFAZIONE 1964 E I CONTI COL PASSATO

Un testo centrale, scritto esattamente a metà della vicenda politico-letteraria-intellettuale di Calvino (21 anni dopo l’entrata nella Resistenza, 21 anni prima della morte) in cui Calvino, in un momento di crisi, di passaggio, fa un bilancio del suo percorso e con uno scatto “da scoiattolo” crea i presupposti per andare verso altre strade che lo facciano uscire dallo scacco che è tipico della sua generazione, quella che a vent’anni ha investito tutto sulla Resistenza ma, vent’anni dopo, ha visto consumarsi le speranze di cambiamento del 1945 e si trova di fronte a un mondo radicalmente diverso.

Forse, in fondo, il primo libro è il solo che conta, forse bisognerebbe scrivere quello e basta, il grande strappo lo dài solo in quel momento, l’occasione di esprimerti si presenta solo una volta, il nodo che porti dentro o lo sciogli quella volta o mai più. Forse la poesia è possibile solo in un momento della vita che per i più coincide con l’estrema giovinezza. Passato quel momento, che tu ti sia espresso o no (e non lo saprai se non dopo cento, centocinquant’anni; i contemporanei non possono essere buoni giudici), di lì in poi i giochi son fatti, non tornerai che a fare il verso agli altri o a te stesso, non riuscirai più a dire una parola vera, insostituibile… […]

Così mi guardo indietro, a quella stagione che mi si presentò gremita d’immagini e di significati: la guerra partigiana, i mesi che hanno contato per anni e da cui per tutta la vita si dovrebbe poter continuare a tirar fuori volti e ammonimenti e paesaggi e pensieri ed episodi e parole e commozioni: e tutto è lontano e nebbioso, e le pagine scritte sono lì nella loro sfacciata sicurezza che so bene ingannevole, le pagine scritte già in polemica con una memoria che era ancora un fatto presente, massiccio, che pareva stabile, dato una volta per tutte, l’esperienza – e non mi servono, avrei bisogno di tutto il resto, proprio di quello che lì non c’è. Un libro scritto non mi consolerà mai di ciò che ho distrutto scrivendolo: quell’esperienza che custodita per gli anni della vita mi sarebbe forse servita a scrivere l’ultimo libro, e non mi è bastata che a scrivere il primo.

Prefazione 1964, in Italo Calvino, Romanzi e racconti, I, Milano, Mondadori, 1991.

5. ULTIMA LETTERA A PASOLINI

Quando Pasolini muore, il 2 novembre 1975, era in corso una sua polemica con Calvino sulla violenza nella società moderna (a partire dal massacro del Circeo). Calvino scrive sul tema una ultima drammatica lettera a Pasolini, due giorni dopo la morte. E’ la testimonianza di come il Calvino della combinatoria e del postmoderno non abbia mai smesso di porsi il problema delle trasformazioni del mondo reale, e che il suo sguardo “leggero” e “cosmico” non erano nichilismo o fuga, ma una delle tante incarnazioni della poetica dello straniamento e della distanza perseguita fin dal Sentiero.

La violenza che ora esplode nella nostra società senza forma è un fenomeno nuovo in quanto le società dei tempi passati incanalavano le proprie spinte aggressive verso esiti spesso altrettanto spietati ma collettivi. Solo una trasformazione in energie dirette verso fini comuni ci salverà dalla forza distruttiva della violenza. So che dico cose terribilmente generiche e forse banali, ma è un punto di metodo che voglio segnare. Voglio dire che le scuole sono in crisi in tutto il mondo, ma nel resto del mondo bene o male funzionano e da noi no. E che l’Italia può temere di diventare per almeno cinquant’anni una periferia coloniale, una enorme borgata disoccupata e violenta. Grande merito di Pasolini scrittore, che volle sempre essere insieme uomo dello scandalo e moralista, è l’aver posto il problema di una morale nuova che inglobi anche le zone del vissuto considerate oscure, che la morale e l’ideologia fino a oggi tendono a escludere. Non è compito facile, e tutte le esemplificazioni oggi correnti appaiono frettolose, quelle che Pasolini rifiutava come quelle che egli proclamava. Certo più di una generazione si romperà la testa, prima di costruire una nuova morale che valga per tutti, anche per chi ora ne è escluso. Ma, purché si arrivi in tempo, questa sarà la via più breve per dare un senso alle testimonianze sulla violenza che Pasolini ha voluto darci con la sua opera e la sua morte.

Ultima lettera a Pier Paolo Pasolini, «Corriere della sera», 4 novembre 1975.

6. LEGGEREZZA E PESANTEZZA

Per finire, l’inizio delle Lezioni americane, impostato in chiave autobiografica, e sempre sul rapporto fra scrittura e mondo: il demone di sempre di Calvino. Come spesso accade, il gioco è quello della complementarità: la leggerezza non ha senso senza la speculare presenza della pesantezza del mondo. Ancora una volta, una considerazione letteraria diventa immagine e anche riflessione morale e esistenziale. Calvino saggista resta dunque sempre uno scrittore vero, che va al “midollo” dell’esperienza umana.

Dopo quarant’anni che scrivo fiction, dopo aver esplorato varie strade e compiuto esperimenti diversi, è venuta l’ora che io cerchi una definizione complessiva per il mio lavoro; proporrei questa: la mia operazione è stata il più delle volte una sottrazione di peso; ho cercato di togliere peso ora alle figure umane, ora ai corpi celesti, ora alle città; soprattutto ho cercato di togliere peso alla struttura del racconto e al linguaggio […]. Quanto ho iniziato la mia attività, il dovere di rappresentare il nostro tempo era l’imperativo categorico d’ogni giovane scrittore. Pieno di buona volontà, cercavo d’immedesimarmi nell’energia spietata che muove la storia del nostro secolo, nelle sue vicende collettive e individuali. Cercavo di cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che mi spingeva a scrivere. Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle. In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa.

Lezioni americane, Milano, Garzanti, 1988.

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