Il giovane favoloso

LeopardiInfinitoAutografi

Bene ha fatto Roberto Saviano, recensendo “Il giovane favoloso”, a dire che Mario Martone ha dovuto usare “tutto il coraggio che ha” per girarlo, perché in effetti fare un film su Leopardi richiederebbe in ogni caso un coraggio fuori dal comune, ma fare questo film su Leopardi non è solo da coraggiosi: è da imprudenti, da incoscienti direi. Martone, infatti, ha voluto fare un film che fosse allo stesso tempo rigoroso, visionario e popolare. In Italia, nel 2014, su Leopardi: cose, per l’appunto, da pazzi!

I rischi erano molti, e opposti fra loro: realizzare un lavoro filologico noiosissimo o, al contrario, una triste fiction. Calcare la mano sul biografismo spicciolo, ovvero degenerare nella declamazione del canto. Essere incomprensibili o troppo didascalici. Enfatici o evanescenti.

Nulla di questo, secondo me, è successo: e non sto dicendo che “Il giovane favoloso” sia un film perfetto, se mai ne esistono; qualche sbavatura qua e là i bravi critici la potranno pure trovare, ma l’effetto d’insieme  è di un film vivo, attuale, leggibilissimo.

Io credo che sia andata così soprattutto perché i protagonisti principali dell’operazione, Martone, Germano e la co-sceneggiatrice Ippolita di Majo, hanno affrontato Leopardi – prima che con bravura – con onestà. Onestà perché in primo luogo Leopardi se lo sono studiato: i suoi testi ma anche (si capisce chiaramente) le linee essenziali del dibattito storico-critico che su Leopardi c’è stato negli ultimi decenni (da Luporini a Luperini, potremmo dire): la controprova è che il film non scopre, non inventa l’immagine “rivoluzionaria” che di Leopardi presenta, e che adesso furoreggia in giro per i media come una gran novità (“il Leopardi che non vi hanno fatto mai conoscere a scuola”: stupidaggini!), perché in realtà gli addetti ai lavori quel carattere protestatario e rivoluzionario di Giacomo Leopardi lo conoscevano da un bel po’ di tempo, e solo la pigrizia dei lettori (unita ad una certa lentezza nel ricambio dei professori di italiano nelle scuole e nelle università) aveva impedito al grande pubblico di scoprirlo.

Tremo all’idea di cosa sarebbe potuto succedere se Leopardi fosse diventato protagonista di un film di successo in cui fosse stata ribadita la sua immagine tradizionale (e sbagliata) di poeta triste perché gobbo, malinconico perché malato, svenevole perché amante non corrisposto. O, al contrario, se l’avessero fatto diventare un’icona pop del tutto snaturata rispetto alla lettera e al senso delle sue opere. Probabilmente sarebbero serviti altri due secoli di critica per raddrizzare il tiro, oppure – peggio – sarebbe stata la fine di un nostro classico (che, arduo com’è per stile e pensiero, è sempre a rischio d’oblio, in questi tempi distratti). Per fortuna invece che il film l’han fatto Martone, Germano e Di Majo, così adesso, forse, non dovrò più fare, ogni volta che inizierò a spiegare Leopardi, il solito giochetto di mettere a confronto i pregiudizi atavici e ostinati dei miei studenti con la carica protestataria, ironica e profetica dei testi più irriverenti di Giacomo; grazie al film, forse, io e miei studenti avremo d’ora in poi un punto di partenza comune per avvicinarci al “giovane favoloso”.

Ma l’onestà di Martone sta anche nel suo senso del limite: non essendo possibile essere fedeli, contemporaneamente, alla vita esteriore di Leopardi, alla sua vita interiore , e all’opera che di quella vita è frutto e testimonianza, ha fatto una scelta estetica precisa: quella della fedeltà all’opera, prendendosi il rischio dell’interpretazione e dell’invenzione sul resto: non credo infatti che ci sia parola pronunciata da Germano che non provenga da uno scritto di Leopardi (e la stessa cosa vale di solito anche per gli altri personaggi : vale certamente, ad esempio, per Giordani, fra i letterati presenti nel film quello di cui conosco meglio le opere, che parla come un libro – suo – stampato). Martone è fedele all’opera anche nel tentativo di immaginare – a partire da lì – la vita interiore dell’uomo; e a questo punto chiedendo allo spettatore di accettare un patto che preveda una certa libertà per il regista in cambio di un di più di efficacia, tensione narrativa e icasticità visiva. Il regista, infatti, racconta la vita di Leopardi senza dover per forza invischiarsi nei problemi e nei dubbi del biografismo spicciolo: molte scene non sono rappresentate esattamente così come sono state vissute, ma come Martone può presumere che siano state interiormente vissute da Giacomo (e in questo senso il cineasta Martone sembra un fedele allievo dell’alessandro Manzoni scrittore e teorico della scrittura). Ad un certo punto, capito il gioco, lo spettatore non si preoccupa più di sapere se le cose siano andate veramente così, in quel giorno, in quella casa ecc. ma gli interessa la credibilità del senso di quel racconto, di quel momento di vita. E spesso si ha l’impressione – grazie a un Germano strepitoso – di avvicinarsi davvero a quel senso, senza che venga tradito né il vero di Leopardi, né la libertà che Martone si riserva per sé.

Faccio un esempio: la tentata fuga da Recanati è molto romanzata nel film: alcuni passaggi (Monaldo cocchiere, per esempio) sono biograficamente incredibili. Però – paradossalmente –  sono veri, perché ci restituiscono il sentimento, l’emozione con cui Giacomo può averli vissuti. E intanto, senza che quasi ce ne accorgiamo, presi dalla fabula, ci vengono descritti aspetti più generali e decisivi del suo essere (l’urlo compresso, o dissimulato, che è proprio di tante sue opere; l’odio per il carcere di Recanati che convive con l’amore per il carceriere Monaldo, il dissidio irrisolvibile che ne scaturisce…).

L’onestà di fondo delle scelte narrative ed estetiche permette di risolvere anche le scene (diciamo così) “impossibili” del film. Come si fa, ad esempio, a rendere credibile una inquadratura in cui Leopardi recita, sul famoso ed ermo colle, l’Infinito? Non si potrebbe, chiaro! Eppure Germano ci riesce, con l’onestà di chi prova a farlo nella maniera più semplice e rispettosa possibile verso chi quelle parole le ha scritte. Ne viene una scena intensa, in cui – nelle pause – sembra quasi di sentire l’eco delle varianti ipotizzate e poi via via cancellate (una specie di critica delle varianti fatta coi silenzi, potremmo dire). Proviamo a dirlo in un altro modo: quella scena – più che il tentativo di ricostruire la biografia di Leopardi nel momento in cui scrive l’infinito – sembra lo sforzo di dare corpo e voce al manoscritto, al testimone cartaceo, ovvero all’unica traccia materiale che di quel momento irraggiungibile di vita e di poesia è rimasto per noi, poveri mediocri abitatori del mondo del 2014. La vita di Leopardi è – per Martone, per noi – in quelle carte, e dunque solo da quelle carte può nascere il “rappresentabile”.

Può essere dunque che la chiave del film sia tutta qui: nella fedeltà ai testi, agli scritti, a quei fogli che Leopardi s’è sempre portato dietro, gelosamente, raccolti in una cassa, per tutta la vita. Dunque una fedeltà ai testi che alla fine è fedeltà a Leopardi. E alla fantasia “favolosa” di cui quelle carte sono testimonianza, e che da quelle carte può ancora scaturire. E una fedeltà come questa, alla fine, funziona.

Andando avanti con le riprese, secondo me, pure Martone s’è reso conto che la cosa stava funzionando, e ha deciso – giustamente – di osare di più, mettendo nel film – man mano che ci si avvinava alla sua Napoli – qualcosa di più propriamente suo. Anche lui ha trovato il coraggio di essere sempre più favoloso e di dialogare in maniera sempre più stretta con Leopardi. Lo si percepisce bene nella potenza visiva della descrizione di una Napoli sotterranea, e se ne haconferma nel finale davvero visionario (pochi minuti sospesi fra The tree of life e Melancholia), immaginato e girato con quel coraggio che probabilmente ti può venire solo da una lunga frequentazione con l’invincibile coraggio di Giacomo Leopardi.

Bonus tracks

#onaneruottolo. Una delle critiche che ho sentito fare più spesso, nei primi commenti a caldo, è che nel film si insisterebbe troppo sulla progressiva deformazione fisica di Leopardi, e che alla fine si otterrebbe l’effetto di ribadire l’interpretazione tradizionale di un poeta “pessimista perché fisicamente sofferente” (per quanto non manchi nel film l’affermazione decisiva di Leopardi in senso contrario). Non sono d’accordo: a me pare che questo essere progressivamente piegato dalla Natura faccia in realtà emergere con più forza la “protesta scettica” di Leopardi, il suo essere “ginestra” che piega, non renitente, il suo capo innocente, ma non è né codardamente supplichevole né forsennatamente orgogliosa. In tutto questo l’interpretazione, soprattutto lo sguardo, di Germano (che mi ha convinto più con lo sguardo beffardo della seconda parte che non con quello contrito della prima) ha un ruolo fondamentale, ovviamente.

#filosofia/poesia. Sempre a sentire le prime reazioni, si conferma l’idea che Leopardi sia difficile da ingabbiare, perché poeta e pensatore talmente ricco e complesso che ognuno finisce per scegliere un suo percorso personale nella sua opera, così che chi ha un approccio più filosofico apprezzerà il filosofo, chi un animo poetico preferirà gli idilli, e così via. Ne viene che a distanza di pochi minuti ho sentito dire che il film è troppo avaro di poesia, di “caro immaginar”, e d’altro canto che era stata svilita la dimensione filosofica, la profondità di pensiero da cui le poesie di Leopardi sono scaturite. Che dire? Forse soltanto che ognuno potrebbe farsi il suo film su Leopardi, e dunque bene Martone & c. han fatto a realizzare il loro.

#Pasolini. La sera prima dell’anteprima del Il giovane favoloso a cui ho partecipato sono andato a vedere il Pasolini di Abel Ferrara. Il confronto fra i due a me è parso impietoso: quello di Ferrara è un film costruito a freddo, senza un vero approfondimento, recitato distrattamente da un Willem Dafoe che non ci mette davvero nient’altro che una faccia giusta. Un film, in fondo, fatto da uno che ha subito una fascinazione passeggera per il personaggio di Pasolini ma che non l’ha – non dico amato – ma nemmeno capito. In questo senso l’operazione artistica e critica di Martone, al confronto, giganteggia.

In questa notte fantastica (ti porto via con me)

Domenica pomeriggio ci sarà la prima nazionale, a Recanati, del film di Mario Martone dedicato a Giacomo Leopardi, Il giovane favoloso. La sera prima, seguendo la moda di questi anni di dedicare una *notte ad ogni evento appena un po’ diverso dal solito, ci sarà a Recanati la notte del giovane favoloso.

Ogni studente, anche mediocre, sa che Leopardi aveva un rapporto pessimo con Recanati. I più scafati sanno anche che in realtà senza Recanati – i suoi paesaggi, i suoi personaggi, il suo stesso isolamento – Leopardi non sarebbe stato lo stesso. Forse non sarebbe stato Leopardi. E’ un po’ come con i genitori, insomma, o in certe storie d’amore tormentate: legami tanto dolorosi quanto necessari.

E la *relazione complicata fra Leopardi e il suo paesotto non è andata poi tanto meglio nemmeno “in morte” di Giacomo, quando s’è tentato in ogni modo di normalizzarlo, vuoi facendone un padre della patria (lui così anarchico, in fondo) ai tempi del nazionalismo otto-novecentesco, vuoi provando a trasformarlo – dopo la mutazione antropologia degli anni Sessanta – in una mascotte, poi in un gadget, e ora in un brand.

Sia chiaro: io non me la sento di criticare chi sta organizzando tutto questo ambaradàn per celebrare il film su Giacomo Leopardi, con balli, canti tradizionali, annulli filatelici, carrozze, costumi d’epoca, rievocazioni di giochi e arti e mestieri: molti di quelli che son coinvolti nell’organizzazione sono amici, e un brivido mi corre alla schiena solo pensando al mazzo tanto che si devono esser fatti e che si stanno facendo. Ben vengano le iniziative che portano turisti nei musei e gente nelle piazze. Tutto è stato fatto, in fondo, per amor di Giacomino e di Recanati. E capisco pure che fra le mille iniziative non ce ne sia nessuna legata direttamente alla letteratura, alla poesia: i convegni sono diventati polverosi e autoreferenziali, le letture poetiche narcisistiche e soporifere, e avrebbero rischiato di gettare una coltre funerea sull’atmosfera che si vuole invece, e giustamente, di festa.

Però. Però.

Però non posso fare a meno di sentire il disagio dell’assenza in tutto questo di ciò che Giacomo è stato davvero (è stato per me? secondo me? vabbe’, ammettiamolo pure: tanto si conosce sempre attraverso il proprio personale sguardo…), cioè un coraggiosissimo e audace pensatore poetante, che non ha concesso nemmeno un briciolo della sua intelligenza all’ammasso delle idee compiacenti o consolatorie.

Di più: il disagio viene dall’avvertire che Giacomo non avrebbe capito, o forse avrebbe capito fin troppo bene, tutto questo. Io me lo immagino, lì seduto da qualche parte a guardare con un occhio la festa un po’ farlocca nella piazzola, e con un occhio la luna, sentendo una distanza irrimediabile, abissale, dall’una e dall’altra.

Me lo vedo che favoleggia (lui, giovane davvero favoloso) di luoghi e tempi dove la poesia abbia ancora un posto nel mondo dei vivi, senza il bisogno della sua monumentalizzazione o della sua degradazione kitsch, della spettacolarizzazione ad ogni costo.

E me lo fingo anche mentre affila lo stilo della sua satira feroce e lo immerge al cuore dei grossolani mercenari della sua immagine.

E sogno che, alla fine, mi porti via insieme a lui da qualche parte: non importa dove, ma piuttosto lontano da qui.