Così Giorgio Agamben:
Occorre rovesciare il luogo comune secondo cui tutte le attività umane sono definite dalla loro utilità. In forza di questo principio, le cose più evidentemente superflue vengono oggi iscritte in un paradigma utilitaristico, ricodificando come bisogni attività umane che sono sempre state fatte soltanto per puro diletto. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare. A questa categoria appartiene lo studio. La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza oggi sempre più rara di una vita sottratta a scopi utilitari. Per questo la trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali è, per gli studenti, insieme un inganno e uno scempio: un inganno, perché non esiste né può esistere una professione che corrisponda allo studio (e tale non è certamente la sempre più rarefatta e screditata didattica); uno scempio, perché priva gli studenti di ciò che costituiva il senso più proprio della loro condizione, lasciando che, ancor prima di essere catturati nel mercato del lavoro, vita e pensiero, uniti nello studio, si separino per essi irrevocabilmente.