Degli studi

Così Giorgio Agamben:

Occorre rovesciare il luogo comune secondo cui tutte le attività umane sono definite dalla loro utilità. In forza di questo principio, le cose più evidentemente superflue vengono oggi iscritte in un paradigma utilitaristico, ricodificando come bisogni attività umane che sono sempre state fatte soltanto per puro diletto. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che in una società dominata dall’utilità, proprio le cose inutili diventano un bene da salvaguardare. A questa categoria appartiene lo studio. La condizione studentesca è anzi per molti la sola occasione di fare l’esperienza oggi sempre più rara di una vita sottratta a scopi utilitari. Per questo la trasformazione delle facoltà umanistiche in scuole professionali è, per gli studenti, insieme un inganno e uno scempio: un inganno, perché non esiste né può esistere una professione che corrisponda allo studio (e tale non è certamente la sempre più rarefatta e screditata didattica); uno scempio, perché priva gli studenti di ciò che costituiva il senso più proprio della loro condizione, lasciando che, ancor prima di essere catturati nel mercato del lavoro, vita e pensiero, uniti nello studio, si separino per essi irrevocabilmente.

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Tre ovvietà

Di fronte a fatti come quelli di Bruxelles il silenzio ci pare intollerabile, e così parliamo parliamo, parliamo. La conseguenza è che si dicono molte ovvietà e scemenze. Tralasciando queste ultime, fra le ovvietà ce ne sono alcune che forse meritano più attenzione di altre.

Stamattina, ad esempio, ho sentito in un dibattito radiofonico il filosofo Massimo Cacciari dire la seguente ovvietà (riferisco a parole mie, come mi ricordo, l’integrale è qui): non dobbiamo stupirci né addolorarci del fatto che l’Europa sia in crisi di fronte a questi attentati, perché la crisi è l’elemento fondativo della cultura Europea. La crisi (etimologicamente: il discernimento, il giudizio, la valutazione) è fondamento del logos, della filosofia occidentale. L’indubbio successo della civiltà europea negli ultimi tre millenni nasce da lì, da questo dato fondativo della continua messa in discussione di sé stessa. Quindi pochi piagnistei, dice Cacciari: noi siamo questa roba qui.

La seconda ovvietà è venuta in mente a me, pensando che tutta questa enorme faccenda dell’emergenza del terrorismo islamico è una matassa che si potrà dipanare solo a partire da cosa succede nella mente di questi ragazzi che decidono di darsi una morte terribile, procurando insieme la morte terribile di decine di persone ignare e anonime. 162101303-3a68d23c-04b3-43bb-a2eb-cec925e2d0b0Guardi foto come questa, che raffigura gli attentatori pochi attimi prima dell’esplosione, e provi a chiederti cosa stesse passando in quella testa nel momento dell’istantanea: “Ora sono qui, trascino questo carrello, sperimento coi miei sensi un pezzo di mondo, mentre fra pochi secondi la bomba avrà dilaniato le mie carni…”. Chissà, forse sono pensieri troppo “occidentali”? Probabilmente. Comunque mette questo al centro delle sue riflessioni (e non è la prima volta) Marco Belpoliti, in un articolo che vale la pena di leggere. Come anche merita una lettura la testimonianza di un jihadista pubblicata oggi sul Messaggero.

Terza ovvietà: se ci arrendiamo alla logica dello stato d’eccezione, e lo facciamo a partire dalla culla della modernità, la Francia, tutto rischia di andare a ramengo. Ne parla, portando il discorso a conseguenze inquietanti e vertiginose, Giorgo Agamben, uno che su queste cose studia da tempo, sul Sole24Ore.

Tre ovvietà. Ma forse ovvietà su cui è necessario fermarsi a pensare.

Ovvietà bonus: la seconda religione d’Italia, forse, meriterebbe d’avere l’otto per mille, come ce l’hanno Chiese che hanno un numero di fedeli infinitamente minore.