“erimo diventate tante macillaie”

terra matta

Qualche giorno fa sono stato in una scuola di Recanati dove ho raccontato la storia di alcune persone, alcune molto note come Ungaretti e Gadda, altre del tutto sconosciute, finite – volenti o più spesso nolenti – nell’ammazzatoio della Guerra Grande. Naturalmente, quello della memorialistica di guerra è un  pozzo senza fondo, e solo a guardare i libri usciti negli ultimi tempi che affollano gli scaffali delle librerie, c’è da rimanere sgomenti. Io mi sono preso la libertà di scegliere le storie che più mi hanno colpito, i testi che mi sembravano avere più forza di evocazione e di sintesi, fra quei pochi che conoscevo (chi ha curiosità di sapere quali, può sbirciare qui). E mi sono anche preso la libertà di non citare, se non di sfuggita, D’Annunzio. Però fra tutte queste storie e le scritture che ho incontrato, una la trovo davvero meritevole di un cenno: quella di Vincenzo Rabito (che si pronuncia Ràbito e non Rabìto come a lungo ho detto io!), uno dei “ragazzi del ’99” che è partito per la guerra e s’è salvato, ha vissuto una vita intensa e abbastanza picaresca e poi, ad un certo punto, già anziano, ha deciso di chiudersi in casa con una vecchia Olivetti e riempire più di mille fittissimi fogli (vd. foto) del siciliano sgrammaticato, espressionistico e irresistibile con cui racconta la sua epopea. E le pagine sulla prima guerra mondiale sono di una forza straordinaria, come quando racconta della sua compagnia sopravvissuta alla battaglia, abbandonata a sé stessa, senza muli e senza niente da mangiare, a cui non restava che bestemmiare: “E il nostro elimento era la bestemia, tutte l’ore e tutte li momente, d’ognuno con il suo dialetto: che butava besteme alla siciliana, che li botava venite, che le butava lompardo, e che era fiorentino bestemiava fiorentino, ma la bestemia per noie era il vero conforto”; o quando, dopo Vittorio Veneto, c’è l’adunata e si annuncia la vittoria, ma ancora una volta niente rancio: “ci hanno detto che chi ave li callette e li scatolette se li mancia, e quelli che non ci n’abiammo manciammo questa mincia, e ci dovemmo contantare che avemmo vinto la querra. E tutte ci abiammo quardate in faccia e tutte diciammo: Ancora manciare per noi non ci n’è. Abiammo vinto la querra e abiammo perso il manciare!”.

Ma il passaggio più straordinario – ahimè – non l’ho potuto condividere con i ragazzi e le ragazze di Recanati, perché proprio quando ci stavo arrivando il computer si è improvvisamente spento e nel trambusto per riaccenderlo e ripartire sono saltato ad un nuovo argomento e ho dimenticato questo passaggio. Lo metto qui, perché vale veramente la pena di leggerlo, per la forza primordiale delle immagini, per la straordinaria consapevolezza con cui questo contadino semianalfabeta rivolge un’allocuzione di tono istintivamente epico a sé stesso, per la lucidità con cui nel finale mette in relazione la violenza ferina a cui era arrivato con il riconoscimento, da parte delle autorità, del suo valore militare. La parola a questo umile Omero siciliano:

Perché noi, quelle che per fortuna ancora erimo vive, arrevammo nella sua posizione con la scuma nella bocca come cane arrabiate. E tutte quelle che trovammo l’abbiamo scannate come li agnelle nella festa di Pascua e come li maiala. Perché in quello momento descraziato non erimo cristiane, ma erimo diventate tante macillaie, tante boia, e io stesso diceva: ‘Ma come maie Vincenzo Rabito può essere diventato così carnifece in questa matenata del 28 ottobre? Che io, durante tutta la querra che aveva fatto, quanto vedeva a qualche poviro cechino ferito, se ci poteva dare aiuto, ci lo dava. Ma in questa mattina del 28 ottobre, ero diventato un vero cane vasto, che non conosci il padrone, che fu propia in queste sanquinose ciorne che mi hanno proposto una midaglia a valore miletare…

Regalpetra, Italia /1

“Pare che a Regalpetra il regime commissariale sia il solo capace di risolvere quei problemi che nel Consiglio comunale si risolvono con la concorde volontà di almeno sedici persone; difficile a Regalpetra mettere sedici persone d’accordo, a meno che non si tratti di operare in danno di qualcuno, e preferibilmente in segreto. Perciò un Consiglio comunale democraticamente eletto mai si troverà in condizioni di serenità, meglio il commissario prefettizio, anche se è un commissario fantasma e tutto è nelle mani del segretario della Dc, il commissario decide in un giorno cose che per anni il Consiglio trascina – così la pensano molti a Regalpetra; il Consiglio comunale è divertente, ma solo col commissario qualcosa di buono si ottiene.”

(da Leonardo Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, in Id., Opere, Milano, Bompiani, 1987, vol. I, pp. 77-78)

Mater

Tutto passa e resta come il giorno. Sul mare una nuvola proietta un’ombra. Guardo dalla terrazza l’orizzonte ed è questo il mio modo di stare sola.
Quando dipingo associo a ogni colore un pensiero. Una delle tante persone che io sono mi guarda e il suo sguardo è l’inizio di qualcosa.
Ora il salino giunge dal largo ed è una brezza e mi insegna per un poco a dimenticare. Forse dimenticare significa capire.
Dopo la morte di mia madre ho continuato a dipingere occhi.
La sera li guardo. Ogni tela è un occhio, certo. Ma anche un universo e un mio volto ai quali racconto di un segreto.
C’è una distanza tra ogni occhio e me. A volte lucente come l’acqua tra due sponde, a volte semplice come i due estremi di una lama.
Sul mare c’è sempre un’ombra ferma come una voce. Le cose che veramente ci confortano sono cose invisibili o lontane. Sono cose perdute.

Non so se queste poche righe possano dare l’idea del fascino e del mistero che produce la lettura integrale del piccolo libro da cui sono tratte: Mater, di Lorenzo Zumbo.
Credo però che, almeno, permettano di cogliere il ritmo, direi il respiro, di questa narrazione senza storia, di questa poesia senza versi che corre coraggiosamente il pericolo di abitare una lontananza (per usare in maniera forse un po’ impropria un’espressione molto amata dall’autore) da ogni genere e da ogni canone, per andare alla ricerca di qualcosa di arcaico e necessario che sta nel cuore oscuro di ogni anima.
E’ difficile dire “di cosa parla” questo libretto breve quanto denso: dire che è la storia di due donne, una madre cieca e una figlia pittrice misteriosamente e ambiguamente gravida, in un’isola simbolica e metafisica dal cui orizzonte sembrano completamente esclusi gli uomini, equivarrebbe a non dire nulla, o quasi. Come servirebbe a poco, temo, cercare di identificare i temi principali, perché in questa storia di morte e nascita, di creazione e di ricerca, di corpi e di voci che si attraggono e si scontrano, in questa storia di anime e di sangue, l’impressione è che l’autore abbia volutamente lavorato di sottrazione, lasciando al lettore solo quel tanto di materiale ritmico ed emotivo, psicologico e archetipico, necessario per orientarsi in quel labirinto che è il nostro profondo.
Le parole, le immagini, anche i molti impliciti riferimenti colti, hanno – credo – principalmente la funzione di evocare l’ignoto, sono come bisturi che vanno a produrre salutifere ferite in qualche zona del nostro io più nascosto che – di solito – teniamo bene anestetizzata, protetta. In altre parole, in Mater più che il poco detto conta il moltissimo soltanto evocato, così che il lettore disponibile si trova coinvolto in una sorta di rito magico, che come tutti i riti magici affascina e spaventa.
E allora finisci di leggere questo libro, nel buio di una notte marchigiana, e ti accorgi (come in un racconto di Borges o di Kafka) che da lontano ti è arrivato un messaggio che non basterà una vita intera a decifrare, ma che contiene forse una verità necessaria. Poi pensi che forse anche chi l’ha spedito, da una notte lombarda e assieme siciliana, ha solo il messaggio ma non la chiave, e che solo dall’alleanza fra te, lettore, e lui, scrittore, può nascere il senso.
Mi piace pensare che questo voglia dire la frase più misteriosa e apparentemente paradossale del libro:

Solo allora capii che ogni essere umano è silenzio. Semplice, puro, bianco silenzio. E che dire di sé una sola parola a qualcuno significa perdere per sempre se stessi.

Forse perdere se stessi per sempre è – mi dico stasera – un piccolo, insignificante sacrificio, se questo può servire a farti diventare parte di una storia, di una relazione. Forse questo è il sacrificio che fa ogni scrittore, per regalare il suo messaggio segreto a chi è disposto ad ascoltarlo. Alcuni chiamano questo sacrificio poesia, altri amore.

Postilla. Conosco Lorenzo Zumbo da molti anni, e quando ho avuto modo di incontrarlo dopo aver letto il libro non ho saputo resistere alla tentazione di chiedere “delle spiegazioni” sui tanti aspetti di Mater che mi avevano lasciato con più domande che risposte. Lorenzo ha avuto la lungimirante cortesia di non rispondermi praticamente su nulla: mi avrebbe così privato – capisco ora – del più prezioso lascito del suo libro: il mistero, lo spazio bianco fra le parole. Del resto Lorenzo è così anche nella conversazione: capace di portarti sempre nel luogo in cui ogni parola si fa interrogazione dell’oltre, e dove mai nulla è banalmente risolto.